Velardi: «Massimo sta usando la stessa tecnica con il Pd»
Velardiè stato uno degli uomini simbolo nella breve stagione della sinistra al governo. Stimato o odiato senza mezzi termini, inviso all'ala radicale dello schieramento, bersagliato dai girotondini, apprezzato per la sua versatilità eclettica dai riformisti e da molti avversari. Definito «Lothar» per il suo cranio rasato ostentato nei servizi fotografici autocelebrativi del mitico staff: oltre alla sua pelata, a fare letteratura ci sono anche le rasature (altrettanto dalemiane) del segretario Nicola Latorre, del portavoce Fabrizio Rondolino e del principale esponente della corrente, Marco Minniti. Velardi è stato il braccio destro di Massimo D'Alema, prima nell'esilio di Montecitorio, poi a Botteghe Oscure, quindi a Palazzo Chigi: ma anche l'artefice della sua metamorfosi politica, un amico di ferro, un compagno di strada in dieci anni e passa di battaglie politiche. Adesso il legame tra i due si è un po' allentato: incrinato da qualche disconoscimento reciproco, ma non compromesso nella sostanza. Velardi ha fondato un quotidiano, Il Riformista, e poi lo ha venduto a peso d'oro alla famiglia Angelucci. Ha fatto il consulente di immagine per molti politici di sinistra (e anche per qualche candidato di centrodestra) con l'agenzia di marketing e comunicazione Running. È stato chiamato in causa in modo indeterminato, ma riconoscibile, da Marco Travaglio, durante un'assemblea dei girotondi al teatro Vittoria: «Sono entrati a Palazzo Chigi con le pezze al culo, e ne sono usciti miliardari». Lui scuote la mano: «No, su questo non c'è nulla da commentare. Ho querelato». Ama spiazzare, stupire. A Claudio Sabelli Fioretti ha raccontato: «Da ragazzino, a scuola, ero fascista. Poi scoprii che non si rimorchiava: mi diedi malato, e quando ritornai ero di sinistra». Gli piace mantenere un'aura vagamente maudit: ma se c'è un uomo che riassume nella sua biografia tutti i passaggi evolutivi dalla Prima alla Terza Repubblica, dal PCI alla post-politica, quello è lui. Poco tempo dopo l'intervista ritornerà – a sorpresa – all'impegno diretto, accettando la carica di assessore al Turismo nella Giunta Bassolino, nella sua Campania. Ma, soprattutto nel periodo in cui lo incontro, Velardi gioca in proprio: cosa che gli consente di dire tutto quel che pensa, e di rivelare anche qualche retroscena incredibile che per tanti anni è rimasto dimenticato, sia sulla Svolta che sul congresso di Rimini. Il suo ufficio ha sede a Palazzo Grazioli, e, curiosamente, confina con la residenza privata di Silvio Berlusconi. Velardi mi accoglie sulla porta, con il suo inconfondibile sorriso: «Hai incontrato il Cavaliere? Eh, eh...» Ci sediamo su due poltroncine di un ufficio arredato con gusto postmoderno. Per lungo tempo, alla parete dietro la sua scrivania, è stata appesa una branda d'acciaio, opera del maestro Jannis Kounellis. Adesso la scultura non c'è più. Velardi mi domanda: «E di che dobbiamo parlare?» «Della Svolta», rispondo io. Il sorriso si allarga di nuovo: «Ecco il titolo, scrivi: "Dal comunismo al governo senza passare per la galera"». Gli chiedo subito di Rimini, dove il giorno del siluramento di Occhetto lui era scrutatore. Lui, invece, parte dall'inizio: «Il vero nodo del 1989 è in questo paradosso: già allora c'erano due leader. Occhetto, considerato inverosimilmente troppo giovane, ma in realtà disistimato. E Massimo D'Alema, che invece era molto stimato, ma effettivamente troppo giovane. Il vero problema è che oggi non ci si rende conto di una cosa fondamentale. Sia i due prescelti, sia coloro che li avevano scelti, i vecchi del partito, erano comunisti, co-mu-ni-sti fino al midollo...». Anche lui lo era, obietto: «Oh, certo... Ma il mio ruolo, ai fini della storia, era del tutto irrilevante». L'uomo delle Reti racconta il contesto della vigilia, la preparazione della Bolognina: «Nel 1986 io divento segretario regionale in Basilicata, fondamentalmente per merito di Massimo, che da responsabile dell'organizzazione sta promuovendo ovunque la sua generazione di dirigenti. In Emilia-Romagna arriva Mauro Zani, a Milano Barbara Pollastrini, in Veneto Cesare De Piccoli... Occhetto è impegnato a scalare la segreteria, D'Alema invece punta a integrarsi nel corpo vivo del partito. Non so se me lo abbia mai detto proprio con queste parole», premette Velardi, «ma la sua filosofia dell'epoca è questa: "Lasciamolo fare, Occhetto: tanto rovinerà qualunque cosa dovrà gestire, poi arrivo io e prendo in mano tutto". Era un'idea così chiara, la sua, che proprio a Rimini rifiuterà la segreteria quando di fatto i nemici del segretario verranno a offrirgliela su un piatto d'argento, dopo la catastrofe della trombatura: un progetto non poteva essere rovinato da un incidente. Massimo allora era il nuovo, non poteva permettersi di diventare l'uomo dei vecchi dinosauri, no? Ma qui ci arriviamo dopo...». L'ex uomo immagine di D'Alema ripercorre le tappe: «La prima verità è che si discuteva della Svolta da molto tempo. Certo, se ne discuteva come si può fare in una organizzazione comunista, in modo carbonaro, attenti a non farsi scoprire. Ma a un certo punto, dopo Tien An Men, mi chiamò Fassino, che stava facendo un giro di telefonate. La domanda che faceva ai segretari regionali era semplice: "Secondo voi si può reggere con questo nome?". A un tratto Piero fece un accenno alla questione generazionale, e disse una cosa del tipo: "Achille sta pensando a una innovazione, ma i vecchi non vogliono". Mica ci voleva Einstein per capire che la questione era quella». Poi Velardi sospira: «Tutto precipitò per il Muro, e dopo la Bolognina accadde l'ira di Dio. Il problema era uno solo: la Svolta fu fatta tardi, e male. Come si poteva portarsi dietro tutto l'esercito? Una cosa così andava gestita senza caminetti, ma in un modo più collegiale. Ci voleva una sapiente capacità di conduzione degli apparati che Massimo, da vero figlio del partito, aveva, e che Occhetto, da eterno eterodosso, non possedeva: in ogni organizzazione politica si conservano memorie antiche, e lui e Petruccioli, dentro Botteghe Oscure, sarebbero stati per sempre quelli che avevano sciolto la FGCI. Questa contraddizione di fondo si risolse con lo scherzetto di Rimini, eh, eh...» Poi fa una pausa: «Qui la cosa si fa lunga e interessante... vuoi un caffè, un succo di frutta?» (...) Claudio Velardi posa la tazzina del caffè: «Ti rendi conto? Le sorti del congresso di Rimini erano in mano a Pe-truc-cio-li!» Provo a obiettare qualcosa, l'ex Lothar insorge con una piccola invettiva: «Ma figurati! Doveva essere il padre della Costituente, aveva il delicatissimo compito di traghettamento degli incerti... Un giorno, a Botteghe Oscure, mi disse testualmente: "Ma questa cazzo di Costituente, che cos'è"?» Obietto: «Mi sembra strano, vista la seriosità del personaggio». Velardi scuote la testa: «Non hai capito. Sto cercando di renderti chiara un'altra cosa... Non se Petruccioli sia buono o cattivo. Ma il fatto che ancora oggi la dialettica del PD sia la stessa di allora. Non è cambiato nulla, nulla... c'era l'impossibilità strutturale di assimilare qualunque corpo estraneo e non consanguineo, l'oggettiva strumentalità nelle aperture agli esterni, un nuovismo vago che produce una identità debole, la stessa ossessione di sempre che li frega: pas d'ennemis à gauche. Ci volevano, e ci vorrebbero, le palle di un vero leader e la capacità di costruire una cultura forte: con Veltroni e Franceschini che ci fai?». Finalmente arriviamo al congresso: «Mi ricordo il giorno di Rimini come se fosse ieri. Tutte le contraddizioni che ti ho detto, dopo mesi di gestazione, precipitarono insieme». «Perché?» chiedo. E Velardi: «Semplice... Molto più della metà del gruppo dirigente, a prescindere dalle divisioni del Sì e del No, aveva in mente una sola idea: creare le condizioni per veder passare il cadavere di Occhetto. Ancora oggi c'è qualcuno che prova a capire cosa sia esattamente accaduto, chi sia stato... E invece era come in quel giallo di Agatha Christie, in cui tutti i passeggeri del treno hanno un motivo per uccidere e ognuno mette la sua coltellata nella schiena della vittima. Nessuno di loro ha dato il colpo mortale, ma tutti avevano collaborato...». (...) Guarda l'orologio, Velardi, scuote la testa, deve andare alla stazione. Ma poi riprende a raccontare, si intriga, si dimentica del tempo: «Dopo il mancato quorum e la fuga di Occhetto dal congresso, il viaggio di ritorno a Roma D'Alema lo fece in macchina, con me e Antonio Luongo, futuro deputato del PDS in Basilicata. Massimo era carico di adrenalina, e ogni tanto ripeteva ad alta voce, come per riprendere il filo del suo ragionamento, o per certificare una cosa di cui voleva essere certo: "È morto! È morto!"». Chiedo, da finto ingenuo, al braccio destro dell'ex premier chi fosse morto. Lui sospira comprensivo: «Ma come chi? Il papero!» Quindi ritorna col pensiero nell'abitacolo della vettura, in quel giorno del febbraio 1991: «Massimo ci illustrava i rapporti di forza nel gruppo dirigente, spiegava quali erano le soluzioni, immaginava cosa sarebbe potuto accadere. A un certo punto, quando stava spiegando che la cosa più facile sarebbe stata andare lì e farsi eleggere, si girò di lato e mi disse: "Ma Claudio, tu non hai ancora capito cosa mi invento io adesso?". Io risposi: "No, Massimo, che cosa ti inventi?". E lui, scandendo le parole, lento e inesorabile: "Io adesso vado lì, faccio un bel discorso... gli do il colpo di grazia e.... lo rimetto in sella!". Ecco, lì per lì non capivo. Poi mi sono convinto che obiettivamente, se Massimo si fosse fatto nominare al posto di Occhetto, magari con una maggioranza che andava da Ingrao a Napolitano, quello sarebbe finito per essere un putsch che forse non gli avrebbe giovato agli occhi della base, che già allora lo amava per il suo essere uomo di partito...». (...) Adesso Velardi prende un altro respiro, come per spiegare una cosa molto complessa: «Quell'idea fissa di D'Alema, quella di uccidere politicamente Occhetto, per poi rimetterlo in sella, secondo me aveva un'altra matrice al di fuori di quella dell'utilità politica, che era tutta spiegata dall'essere profondamente comunista di Massimo». Cioè? «È un modo di essere, di stare al mondo. Dire delle cose e lavorare esattamente nella direzione opposta, costruire reti di relazioni, alleanze, creare meccanismi distruttivi nelle organizzazioni, impadronirsi degli uomini e svuotarli di ogni potere. È un'arte rara». Ma il risultato finale non era lo stesso? Velardi spalanca gli occhi: «No! Quello che D'Alema voleva non era una vittoria politica, ma una sentenza definitiva. Lui non doveva sostituirsi banalmente a Occhetto, come avrebbe potuto desiderare, che ne so, un democristiano. Lui doveva portarlo a consunzione, svuotarlo di ogni significato, cancellarlo, per restare poi l'unica alternativa». Altra pausa. «Ecco, in questo D'Alema è un vero maestro, un inarrivabile professionista della politica. Su quel terreno non lo batte nessuno. Ma la sua vera maledizione, fattelo dire da me che lo conosco bene, è che ancora oggi tende a riprodurre solo quel modello, non ne conosce un altro. Infatti è quello che ha fatto anche con Prodi nel 1996, prima erigendosi a garante della sua maggioranza, e poi scavandogli la fossa sotto i piedi. Ed è anche quello che ha fatto con Cofferati nel 2003, polverizzandolo e costringendolo di fatto a lasciare il campo... D'Alema prima mette in moto dei congegni devastanti, e subito dopo si erge a medico per curare la sua vittima: è quasi affascinante, non esiste in natura. Se ci pensi bene, è la stessa cosa che sta facendo ora, dopo vent'anni, con Veltroni nel PD». Gli chiedo qual è il motivo: che cosa ottiene, alla fine? Velardi mi guarda stupito: «Nulla! Ma è il suo modo di essere... Nelle battaglie politiche puoi fare qualunque cosa, a patto di non apparire mai come il killer antipartito. È il gene comunista che c'è nell'angolo più profondo del suo DNA. È l'elemento che rende D'Alema, anche per me, affascinante e tragico». (...) Ancora una volta, nello studio di Palazzo Grazioli, lo sguardo di Velardi corre al quadrante dell'orologio: «Oh Gesù, ma qui mi parte il treno!» Però si vede che la rievocazione lo sottrae alle incombenze dell'agenda, a quell'Eurostar che lo deve portare a Napoli: «Vedi», dice, pregustandosi la mia faccia, «il giorno dello scrutinio – oggi si può dire tranquillamente perché esiste la prescrizione... – si realizzò un meraviglioso imbroglio messo in piedi, anche con un qualche talento, bisogna ammetterlo, dal sottoscritto». Appoggio la penna, rimango un po' stupito dall'affermazione così perentoria. L'ex braccio destro di D'Alema scuote la testa: «Sì, sì... merito mio! Feci tutto di concerto con gli uomini che coordinavano le altre due correnti, che poi erano Luciano Pettinari per il No, uno che di politica ci capiva, Vasco Giannotti per i bassoliniani, una vecchia volpe e un buon amico, e poi Umberto Minopoli dell'area riformista, che per me era come un fratello. Riuscii a tendere la rete. Se pensi che le sorti degli occhettiani erano affidate a Petruccioli, ti rendi conto che non c'era storia nemmeno lì! Uno squisito intellettuale, per carità, Claudio: ma anche un uomo strutturalmente incapace di capire tutti i sofismi da azzeccagarbugli, tutto l'intrico di vite e speranze e infamia che sono il cuore pulsante di ogni congresso, e in definitiva di ogni battaglia politica... Quel giorno, secondo me, non si rese conto nemmeno di che cosa stava accadendo!» Provo a chiedere a Velardi se non stia millantando, magari per vanagloria, imprese più grandi di quelle che ha effettivamente realizzato. Lui nega: «Macché! Ti posso anche spiegare qual era il meccanismo: c'erano allora i primi computer, e io – d'accordo con Minopoli e Giannotti, all'insaputa del povero Petruccioli – iniziai a manipolare le liste degli eletti nel comitato nazionale quando lui affidava il file alle segretarie, dopo ogni modifica. Il trucco era semplice: infilare dentro un po' di riformisti e un po' di bassoliniani in più, in modo da poter proporzionalmente aggiungere anche un po' dei nostri. Tutti avevano i loro problemi con le rispettive delegazioni, e quindi accettarono di buon grado. Chi non capiva proprio nulla era Petruccioli che, non sapendo nemmeno accenderlo, un computer, dava i suoi brogliacci pieni si scarabocchi a una compagna della segreteria, e poi non riusciva a capacitarsi come mai i conti non tornassero». (...) Di nuovo uno sguardo all'orologio, sospiro velardiano: «Uèèèè... Adesso devo proprio andare». Gli propongo di accompagnarlo alla stazione. Accetta. Il racconto continua durante il tragitto: «Come ti ho già detto è nelle battaglie delle commissioni elettorali dei congressi che si stringono le grandi alleanze con cui si governano i partiti. Noi, per esempio, in quel frangente avevamo posti da offrire e ruoli da assegnare... » In che senso? «Vuoi un esempio carino? Ricordo che proprio in quelle ore di tira e molla strappai all'ultimo momento un accordo con i calabresi, con Marco Minniti, che si era tenuto in equilibrio tra gli schieramenti e che si guadagnò in quell'occasione l'ingresso in segreteria. Bravissimo, fra l'altro, un'operazione perfetta...» «Ma allora», azzardo, «questo vuol dire che c'era un piano?» Velardi scuote la testa: «No, non ci fu nessun complotto, o almeno non in senso strettamente tecnico. C'era la forza della politica, che spingeva nella direzione della trombatura di Occhetto. Noi avevamo garantito tutti i nostri, mentre gli occhettiani avevano faticato a garantire i loro, e avevano poi combinato pasticci peggiori delle difficoltà che dovevano risolvere, divisi come erano in dieci componenti... Alla fine, quando si arriva al voto, resta il fatto che c'è un problema politico con i riformisti, che c'è un problema umano con molti che soffrono per entrare o uscire dalle liste, e che c'è un rancore contro Occhetto di tutti quelli che per un anno hanno sopportato i suoi capricci. Sai, le votazioni sono come un vento che soffia: dopo che erano state aperte venti o trenta schede, non di più, mi sono fatto la mia griglia di proiezione sullo scrutinio e sono andato a dire a Massimo: "Guarda che questo non ce la fa!"».