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Un tracollo previsto e annunciato

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Dacirca dieci anni (ossia da quando il Governo Prodi nel 1996-97 ha ulteriormente peggiorato il meccanismo d'indicizzazione introdotto nel 1993 dal Governo Amato), avvertiamo i lettori che le pensioni , specialmente quelle d'anzianità, comportano, anno dopo anno, un'erosione del reddito reale in termini di parità di potere d'acquisto. L'erosione è molto forte se i trattamenti pensionistici sono raffrontati con i redditi di chi resta al lavoro. In breve secondo i nostri calcoli, se si va a riposo a 58 con un trattamento che, a quel momento, è a livello medio o medio-basso, a 75 anni non si fa più parte della borghesia ma degli indigenti. Gli individui e le famiglie sanno fare di conto. Lo hanno compreso molto prima e molto meglio di certe parti del sindacato che hanno innalzato le pensioni d'anzianità come un vessillo e hanno organizzato proteste tali da fare cadere Governi democraticamente eletti: a queste parti del sindacato interessavano essenzialmente alcuni gruppi d'interesse che usciti dalla porta dell'impiego dipendente (spesso presso il sindacato o in posizione di distacco sindacale), sarebbero rientrati dalla finestra delle collaborazione. Quella generazione - 55nne ai tempi della «riforma Dini» del 1995 - è ormai prossima alla settantina; quindi, come gruppo d'interesse pesa davvero poco. Di fronte al tracollo delle richieste di nuovo pensioni d'anzianità, questi elementi del sindacato non possono che scegliere il silenzio. Alla base del fenomeno, non c'è unicamente la consapevolezza di quanto si perde se si ha lunga vita e l'interrogativo su chi si prenderà cura di noi quando con assegni ormai sottilissimi si ha bisogno di cure. C'è pure il fenomeno della crescita rasoterra del flusso di beni e servizi prodotti dall'economia italiana negli ultimi 15 anni e della vera e propria caduta nel 2009. Se la produzione ed i redditi non crescono, se si è perduta ricchezza a ragione del crollo delle Borse e dei valori immobiliari, se si opera in un'atmosfera d'incertezza, ci si aggrappa il più a lungo possibile al «posto» e si proroga il pensionamento. Ciò è nell'interesse non solamente di individui e famiglie ma della società. Numerosi studi empirici - il più recente dell'Università di Maastricht copre quasi l'intera Ue - provano che i mercati del lavoro degli anziani e dei giovani sono nettamente distinti: i primi non occupano «posti» a cui tendono ad andare i secondi. Ripetute analisi Usa hanno dimostrato che restare più a lungo al lavoro fa bene alla salute; e anche su questa base la Corte Suprema americana ha dichiarato «incostituzionali» le norme sui limiti d'età per restare in impiego (specialmente delle pubbliche amministrazioni). Un'analisi analoga (relativa all'Ue) delle Università di Tilburg e di Amsterdam non ha sino ad ora fornito risultati esaurienti. Di converso, studi dell'Iza (l'Istituto federale di studi sul lavoro tedesco) suggeriscono un nesso tra il calo o la stagnazione della produttività multifattoriale di un Paese ed il pensionamento precoce; per questo motivo, in Germania (dove non esiste l'istituto delle pensioni di anzianità) si sta portando a 67 anni l'età per andare a riposo.

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