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Le responsabilità di Obama nel trionfo del tiranno

Scontri in Iran e proteste contro l'elezioni di Ahamadinejad

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Vittoria sicuramente gonfiata dai brogli, ma con un tale margine da non permettere dubbi sulla sostanza: una sanguinaria dittatura, che ha in programma di cancellare Israele dalla faccia della terra, che impicca gli omosessuali, che terrorizza gli oppositori, riscuote in Iran uno straordinario consenso popolare. Obama, sicuramente, non voleva ottenere questo risultato, ma il suo dilettantesco discorso all'Islam dal Cairo, l'ha invece rafforzato. Obama si è presentato politicamente in ginocchio di fronte ad Ahamadinejad, ha chiesto scusa per le ingerenze statunitensi, ha detto cose incredibili - e false - sulla tolleranza dell'Islam, ha cancellato ogni pretesa che l'Iran si adegui alle richieste dell'Onu (dell'Onu, non degli Usa) e sospenda il programma di arricchimento nucleare, si è detto disposto a discutere. Soprattutto, Obama, non ha minacciato, si è voluto distinguere da Bush presentandosi solo e unicamente col volto amico, addirittura si è detto disposto a riconoscere le buone ragioni dell'Iran. Questo, a dieci giorni dal voto iraniano, dieci giorni in cui Ahmadinejad ha potuto portare a testimonianza lo stesso discorso di Obama per dimostrare - a ragione - agli iraniani, che la sua strategia è stata pagante, che disattendere le risoluzioni dell'Onu, rifiutare i controlli dell'Aiea, lanciare missili intercontinentali (che hanno senso solo se armati con una atomica), armare i Talebani afgani (questo ha rivelato il segretario Usa alla difesa, Gates), armare Hamas, aveva obbligato il nuovo presidente americano a abbassare la cresta, a riconoscere la potenza iraniana. Solo il cielo sa chi e che cosa abbiano convinto Obama a fare quel suo sciagurato discorso del Cairo, prima che Hamas e al Fatah avessero cessato di spararsi nei Territori, prima che la Siria avesse fatto un solo passo di appeasement, prima che a Teheran si fosse delineata una minima apertura. Avesse taciuto, avesse compreso quel che stava bollendo in pentola a Tehran (e dopo 30 anni dalla vittoria di Khomeini ci sarà pure qualche americano che abbia imparato a "leggere" quel paese), si fosse riservato la mossa del discorso all'Islam in tempi più maturi, Obama oggi non si troverebbe spiazzato. Soprattutto si sarebbe risparmiato di fare davanti al mondo la figura del provinciale - che è - che parla al popolo dell'Iran come parlerebbe al popolo della Virginia: tutta retorica, voli pindarici, frasi ad effetto e nessuna sostanza, solo appelli buonisti al solidarismo. In cinque mesi la "strategia del dialogo"di Obama ha dunque portato a questi risultati: la Corea del Nord è sull'orlo di una guerra con la Corea del Sud; in Iran il blocco oltranzista si è rafforzato a dismisura, con conseguenze a catena su Hamas e Hezbollah (che hanno salutato il trionfo di Ahmadinejad, come fosse loro), Abu Mazen subisce sempre più l'iniziativa terroristica di Hamas anche in Cisgiordania, mentre la semplice notizia del ritiro di buona parte del contingente Usa dall'Iraq, sta facendo rialzare la testa a quei terroristi che erano stati quasi tacitati. Ora, si dice a Washington, Obama correrà ai ripari, metterà in campo un "piano B". Il problema è che questa alternativa non esiste, che da tre anni il senatore di Chicago spiega al mondo le virtù salvifiche del dialogo e del buonismo, che ha vinto le elezioni su questa piattaforma ipocrita e che il "piano B" possibile è uno e uno solo: fare esattamente quel che fece George W. Bush. Obama ha già ricalcato le orme della precedente amministrazione in molti campi (l'ala liberal dei democratici glielo rimprovera ogni giorno), ma in politica estera era riuscito sinora a mantenere la sua immagine di "portatore di speranze". Ora che Ahmadinejad gli ha subito detto a brutto muso che di dialogo non si parla nemmeno e che se vuole parlare con lui deve accettare il nucleare e cessare di appoggiare Israele, Obama di deve trasformare in un uomo di Stato. Possibilmente con idee vincenti.

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