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Le sortite di Gianfranco aiutano solo la Lega

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Allaquale il presidente del Consiglio, riconoscendone importanza e lealtà come alleata di governo, negli ultimi giorni della campagna elettorale aveva aperto le porte della presidenza della regione Veneto, o della Lombardia, o addirittura di entrambe, rivendicate dal partito di Umberto Bossi ad un anno dalla scadenza dei mandati dei governatori attuali. Essi sono Giancarlo Galan e Roberto Formigoni, entrambi del Pdl e per niente disposti, almeno per ora, a rinunciare alla ricandidatura. Le aperture di Berlusconi in effetti ci sono state, per quanto siano state poi corrette di fronte alle proteste o ai malumori levatesi dall'interno del suo partito. E possono essere state di qualche aiuto alla Lega per superare il 10 per cento dei voti nelle elezioni europee del 6 e 7 giugno. Ma lasciatemi dire che, ancor prima e più di quelle aperture di Berlusconi, possono aver giocato in campagna elettorale a favore della Lega le distinzioni marcate all'interno della maggioranza dal presidente della Camera Gianfranco Fini su temi particolarmente sensibili come l'immigrazione e l'ordine pubblico, presidiati con fermezza dal partito di Bossi. Anche se i guadagni leghisti hanno compensato quasi per intero le perdite del Pdl rispetto alle elezioni politiche dell'anno scorso e hanno consentito al governo italiano, unico fra quelli del vecchio continente, di superare indenne il rinnovo del Parlamento Europeo nel bel mezzo di una crisi economica, non è peregrino interrogarsi sugli effetti delle ormai costanti sortite dissidenti di Fini. Esse gli hanno sicuramente procurato maggiore attenzione nei palazzi della politica, ed apprezzamenti dai banchi parlamentari e dai giornali d'opposizione, ma non hanno probabilmente aiutato Berlusconi, già esposto ad una velenosa campagna di denigrazione personale condotta dai suoi avversari, a fare raggiungere al Pdl il 40 per cento dei voti e oltre previsto dal presidente del Consiglio. Il professore Alessandro Campi, autorevole consigliere di Fini, pur riconoscendo ed apprezzando "la tenuta" di Berlusconi, grazie alla quale non dimentichiamo che il Pd di Dario Franceschini dista di ben nove punti elettorali dal Pdl, ha riproposto in una intervista al Corriere della Sera il tema di «costruire un nuovo modello di leadership e un partito dai nuovi contenuti». Altrimenti, quando Berlusconi «non ci sarà più», gli elettori di centrodestra — ha detto — si troverebbero «di fronte ad un deserto». Ma questo è un territorio già occupato dalla sinistra, e presidiato da un imbaldanzito Antonio Di Pietro.

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