Il presidente della Camera: «Si voti il referendum» Dietro lo scontro un manifesto politico alternativo
Quelloche il presidente della Camera e co-fondatore del Pdl si appresta a chiedere è un vero e proprio cambio di passo. Forse addirittura un cambio di linea del governo. Non lo farà oggi e non lo farà domani. E probabilmente non farà nulla prima del 21 giugno giorno in cui si voterà il referendum elettorale e soprattutto per i ballottaggi. Fini non è un ragazzino e sa benissimo che qualunque cosa dirà da ora a quella data sarà interpretata in chiave polemica contro Berlusconi e quindi contro il Pdl. Farà solo uscite «istituzionali», come quella di ieri sui referendum proprio a poche ore di distanza dalla diramazione di un comunicato di Palazzo Chigi con il quale Berlusconi faceva sapere di non ritenere opportuno che il Pdl si impegni sul referendum indigesto a Bossi. «Vado a votare e lo faccio convintamente», ha risposto il principale inquilino di Montecitorio ai giornalisti che gli chiedevano appunto se si recherà alle urne. Non solo, ma si è anche augurato esplicitamente che lo facciamo gli italiani. E non stupisce visto che per la raccolta delle firme affinché il referendum venisse indetto si era impegnato in prima persona poco più di un anno fa. Fini si è fermato su quel punto. D'altro canto, il presidente della Camera non può dire altro. Non può entrare nel merito dei provvedimenti. Può certamente rivolgere appelli affinché gli italiani assolvano al loro dovere di andare a votare. Non parla quindi la terza carica dello Stato. E se lui non parla c'è chi scrive. Come il Secolo, il suo giornale, improvvisamente diventato l'avanguardia del pensiero finiano. Non a caso a Palazzo Grazioli hanno cominciato a legerlo con maggiore attenzione. E allora, che scrive il quotidiano di An? Basta andarsi a rileggere quello che era scritto sotto la firma di Carla Conti (pseudonimo del direttore Flavia Perina) sul giornale del 27 maggio scorso in un editoriale letto e ampiamente deriso dai vertici del Pdl. E invece era tutto scritto lì, non c'è nulla di particolare da scoprire. C'era scritto quello che può considerarsi un manifesto politico, una nuova agenda di governo. Non un nuovo governo ma nuove priorità. Si metteva in evidenza «la consapevolezza che fuori dalle temperie della campagna elettorale, quando arriverà il "dopo" e col "dopo" la necessità di dare un'anima e una direzione al Pdl e alla legislatura, non ci si potrà affidare al vecchio schema di Berlusconi che pensa per tutti». Di qui si leggeva anche che a quel punto «tornerà utile un po' di ragionamento "finiano" per raccordare gli spunti "rivoluzionari" di Sacconi al dettato costituzionale sul diritto a un'equa redistribuzione». Qui il riferimento è alla proposta del ministro del Welfare di legare le retribuzioni ai risultati, favorendo la partecipazione dei lavoratori all'impresa e al suo azionariato, che poi è una antica battaglia della destra (Fini presentò anche un disegno di legge a sua firma quando era all'opposizione). In quell'articolo venivano evidenziate anche altre azioni che il governo sta compiendo e che talvolta vengono coperte dalle polemiche sulle ronde. Per esempio si scriveva delle «riforme di Brunetta all'idea di un'Italia più competitiva ma anche più giusta, il rigore in materia di sicurezza a scelte precise che integrino gli immigrati di cui ci siamo fatti carico, l'attenzione della Cei alle politiche economiche complessive». Quindi le richieste di queste settimane come il fatto di associare l'immigrazione, la politica dei respingimenti, a una uguale politica a favore dell'integrazione. Insomma, era il ragionamento di quell'editoriale, se davvero il Pdl vuole essere maggioritario deve guardare anche ad altri temi, soprattutto quelli di carattere sociale. C'è il capitolo dell'organizzazione interna del partito. Fini lo immagina strutturato sul territorio, radicato. E con organi statutari che abbiano un peso. Tanto per intendersi, vorrebbe che su una materia così delicata come il referendum, non sia un comunicato diffuso da Palazzo Chigi dopo una cenetta ad Arcore a spiegare la linea del partito. Bensì vi sia almeno una riunione dell'ufficio di presidenza che discuta e poi decida. Paradossalmente nell'ultima fase di An è stata proprio questa (ovvero la scarsa discussione interna) la critica che maggiormente gli è stata rivolta.