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La richiesta di ordine non può creare disordini

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Faredi tutta l'erba un fascio non aiuta ad affrontare la questione che, con il passare del tempo, diventa sempre più cruciale per chi arriva in Europa e per chi accoglie quelli che una volta venivano chiamati «dannati della terra». Perciò dividersi su un tema del genere tra tifoserie è l'atteggiamento più sbagliato ed incivile che si possa avere. La «buona immigrazione» è, come tutti intuiscono, quella che non costringe a difendersi dall'ospite il quale ha tutto l'interesse ad integrarsi e non ad essere assimilato, conservando perciò la sua cultura, le sue tradizioni, le sue abitudini e coltivandole nell'ambito dei nostri ordinamenti. Possibilmente (ma non tutto si può avere) gli immigrati di cui pure abbiamo bisogno dovrebbero essere qualitativamente, sotto il profilo professionale, consapevoli di poter svolgere mestieri utili e, nei limiti del possibile, appaganti. A tal fine sarebbe opportuno che gli Stati europei investissero nei Paesi dai quali proviene la maggior parte degli extracomunitari in scuole, istruzione e formazione. Sicché gli immigrati non sarebbero costretti a legarsi, come spesso avviene, a cosche di malfattori i quali, una volta avviatili al mercato clandestino, ne fanno l'uso che ritengono più remunerativo alimentando la delinquenza e perfino una possibile «guerra tra poveri», vale a dire tra italiani disoccupati o indigenti da un lato ed immigrati che cercano di sopravvivere ai limiti della legalità o nell'illegalità tout court. Se è vero, come tutte le statistiche concordemente dimostrano, che tra qualche decennio gli italiani saranno una minoranza in Italia, allora forse, invece di attuare politiche soltanto di ordine pubblico, sarebbe bene pensare a politiche demografiche e familiari al fine di arginare un fenomeno che potrebbe avere esiti devastanti sotto il profilo culturale. Ciò non significa respingere l'altro da noi in nome di una civiltà da salvaguardare, ma organizzare una convivenza accettabile con chi è portatore di altre istanze religiose e culturali. In questo sta la sfida dell'identità vissuta. Se, come da molti segni appare, in Italia non meno che in altri Paesi europei la soglia della caratterizzazione civile, e dunque identitaria, si è abbassata, non dipende dall'alto numero di immigrati, ma dalla scarsa attitudine degli europei stessi a vivere secondo modelli di vita tradizionali e legati ad una cultura che li differenzia. In questo senso la «multietnicità», la «multiculturalità», non possono essere visti come attentati alla dignità degli italiani e degli europei, ma quali indiscutibili esiti di una nuova universalità derivata dalla restrizione degli spazi, dalla facilità delle comunicazioni, dall'integrazione tra stili di vita connessa all'ampliamento delle conoscenze. Oggi tutto ciò viene rubricato sotto la voce «globalizzazione» che comprende pure, e non potrebbe essere diversamente, la prossimità di localismi che tendono a fondersi. Non è la prima volta che accade nella storia. Ricordiamo l'impero romano, l'universo federiciano, la stessa ecumene cattolica, il vasto aggregato asburgico nel quale convivevano popoli dissimili eppure amalgamati da uno stesso principio sovrano che li faceva cittadini di un solo Stato. Oggi prendere atto che la multietnicità è entrata a far parte della nostra vita, non significa attenuare il contrasto all'immigrazione clandestina, ma renderci conto che essa non la si può esorcizzare con dichiarazioni alle quali non fanno seguito adeguate politiche di accoglienza. Insomma, la richiesta di ordine non può generare altri (e forse più gravi) disordini. Culturali prima che civili, i quali, come si sa, sono più pericolosi.

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