Lehner
Checi facevo nella Marsica? Intanto, c'erano parenti - i Corbi e i Di Bernardo - e, poi, da giovane errante, anarcoide e ribelle, mi piaceva spaziare al di là delle mura di Roma, fuggendo con la Littorina verso la piana del Fucino, affrancata dalle acque come nel passaggio del mar Rosso. Lì, per passione e per bisogno, «stramavo» bovini, cavalli, muli e somari - c'erano asini di razza francese, grandi e veloci come cavalli -; mi occupavo dei finimenti, spazzolavo gli animali, etc. etc. Partendo all'alba, quando l'umidità tesseva una nebbia più che padana, arrivavo col carretto tirato dal baio Fiorello al Fucino, dove lavoravo come bracciante quella terra farinosa e candida, più fertile e generosa delle «terre nere» dell'Ukraina, granaio d'Europa, prima del disastro realsocialista. Abruzzo, forte e gentile, dunque. Sperimentai il «forte» nelle scazzottate avezzanesi coi tosti e fumantini celanesi, mentre il «gentile» sgorgava dall'eterno femminino marsicano, nonché dalla religione dell'ospitalità professata dagli abruzzesi tutti. Capitavo in una famiglia, magari con solo venti coppe di terra a sfamare dieci bocche, e là partiva la gara ad onorare l'ospite: anzi, si crucciavano se non accettavo il bicchiere, il «nuccio atterrato» - paradisiaco dolce di albume e mandorle - o le «coperchiole» farcite di miele e noci. Si toglievano il pane di bocca. Ne ero commosso e rammaricato ed ogni volta mi schermivo: tutto inutile, però, davanti alla piena esondante della gentilezza abruzzese. Già allora ammirai altre caratteristiche scaturenti dalla mamma di tutte le virtù: la dignità personale. Anche i più poveri, nel dì di festa facevano il bagno nella tinozza, spazzolavano e lucidavano le scarpe, indossavano la camicia bianca con colletto alla coreana - la cravatta non s'usava -, l'abito buono. Ci si radeva da un barbiere, che usava due prezzi e due rasoi, uno nuovo per signori, l'altro seghettato per gote di cotenna. Anche nelle giornate di duro lavoro nei campi, in quelle abitazioni regnavano pulizia, ordine, decoro. La donna abruzzese, oltre ad essere spesso troppo bella, quindi, mai subalterna, denotava un innato senso estetico. La forma per lei era sostanza, sia nella veste, sia nell'arredamento e nella cura della casa. Le contadine con la conca colma d'acqua sulla testa - altro che top model! -, s'avanzavano su terreni disagevoli, mantenendo stile, classe, eleganza nella postura. In provincia dell'Aquila, tutti amavano le opere liriche e ne capivano, tanto da dare le pagelle alla «banda», i cui musicanti erano ospiti del paese. Adesso, nella mimica e nelle parole degli scampati al terremoto, ho rivisto intatti e, forse, accresciuti questi esemplari connotati. Tanta forza, tanta gentilezza, tanta dignità, pur nel lutto, nel dolore, nello sconforto, con l'aggiunta di un'altra dote: l'abruzzese, niente a che fare con Di Pietro, parla un buon italiano ed è capace, anche tra le scosse sismiche, di gestire correttamente un lessico proprio, preciso, variegato. Gli trema la terra, non la voce. Aquila bella è, anche linguisticamente. Giancarlo Lehner