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Il Gran Sasso ha fermato il mostro e salvato le sue perle

L'Abruzzo trema ancora: nelle foto le tendopoli allestite dopo il terremoto che ha devastato la popolazione

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Il gigante di roccia ha fermato il "mostro" e salvato le sue tre perle. Gli abitanti dei piccoli centri arroccati sulle pendici del Gran Sasso ne sono convinti: «È stata la montagna a salvarci». Castel Del Monte, Calascio con l'antica Rocca, Santo Stefano di Sessanio hanno resistito. I danni maggiori li ha riportati Santo Stefano. L'El Dorado della lenticchia abruzzese ha perso l'antica torre medicea di 18 metri che sovrastava il borgo antico. È il più basso dei tre paesi e ha avvertito più degli altri la scossa di domenica, meno degli altri quella di martedì sera. Al contrario, i residenti di Castel Del Monte hanno avuto più paura martedì che domenica. Strano, ma è quello che raccontano i concittadini del sindaco Luciano Mucciante sfollati e radunati nel campo da calcio. «È crollata solo l'ultima parte del campanile della chiesa», dice Pasquo Mucciante indicando col dito la sommità della rocca. Pasquo è una delle trecento persone che da L'Aquila hanno raggiunto Castel del Monte lunedì mattina dopo la prima scossa. «Ho telefonato ai parenti che abitano qui. M'hanno detto che l'avevano sentita, sì, ma non era successo niente di grave. Allora ho fatto la valigia e sono salito». Il fiume di aquilani che si è riversato in montagna ha creato però qualche problema ai volontari che credevano di trovare solo 300 persone. «Ora siamo 600 - spiega il primo cittadino - e siamo in attesa di tende supplementari. Per i generi di prima necessità ci siamo arrangiati da soli. Non sono per niente soddisfatto di come è andata. I centri di montagna sono stati lasciati soli». Lunedì, all'alba, sono rientrati nelle proprie abitazioni poco danneggiate rispetto a quelle a valle. Gli abitanti di Calascio hanno avuto e continuano ad avere più paura dei residenti di Castel Del Monte. La rocca è intatta. Alcune case mostrano evidenti crepe ma non c'è stato nessun crollo. Solo i massi sono venuti giù dalla rocca fermandosi a un pelo dalle abitazioni più a monte. Elena, una giovane colf romena, guarda la roccia di un metro di diametro affondata nell'asfalto a venti metri dalla casa in cui è ospitata, prende fiato e racconta la sua storia. «Sono partita da L'Aquila e sono arrivata a Calascio insieme a mio marito - anche lui è romeno - dopo la scossa di domenica notte. Qui siamo ospiti del signor Mario, il fratello del signor Antonio. Casa è sua. Io lavoro come colf dal signor Antonio. Il signor Antonio ha perso un familiare a L'Aquila sotto il terremoto. Lui è rimasto in città, ma ha voluto che noi due venissimo qui su». Calascio ospita 120 sfollati. Le tende sono già state montate ma mancano brande e materassi per dormirci comodamente. «I volontari hanno finito di montare il campo alle due di notte - spiega Teresa Giustizia - Erano esausti. Stanno facendo molto per noi. Certo che materassini e brande ci avrebbero evitato un'altra notte nelle macchine». Calascio e Santo Stefano hanno una storia in comune. Una storia di solidarietà. Gli sfollati dei due centri descrivono un signore distinto, sulla sessantina, alla guida di una Jaguar grigio scuro con il bagagliaio pieno di frutta e verdura. «Ha detto di venire da Velletri, ma non ha aggiunto altro. Sembrava molto riservato. Uno che non vuole farsi pubblicità, insomma», dice Teresa. Prima di raggiungere Calascio è passato a Santo Stefano. Annamaria Lancioni, cuoca del campo di Santo Stefano e madre del titolare del ristorante Area Verde, conferma la descrizione di Teresa, ma prova a fare un'ipotesi: «Secondo me doveva essere il titolare di un ortofrutta, forse addirittura di un ingrosso di generi alimentari. Chiunque sia, grazie, ci ha dato una grossa mano». A Santo Stefano alcuni ragazzi hanno raccolto un po' di legna per fare un falò. Ne hanno fatto un mucchio accanto alle tende, anche queste, come a Calascio, montate senza materassi. Devono ospitare 50 persone. Gustavo Campoverde, che a Santo Stefano s'è trasferito «perché qui è il paradiso», rimpiange la torre medicea. Sotto gli occhiali scuri lo sguardo è incollato al fazzoletto di cielo che ora s'intravede tra due antichi palazzi del borgo: «Lì in mezzo c'era la torre del XVI secolo. Era l'orgoglio di Santo Stefano. Gli altri palazzi per fortuna hanno retto e nessuno s'è fatto male. Mi sono trasferito qui perché ero convinto che l'aria di questa montagna allungasse la vita. Ora che ce l'ha salvata, so che avevo ragione».

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