Vicino al mare in fuga dall'inferno

PESCARASono fuggiti dall'inferno, dalla loro terra ridotta a un cumulo di macerie che continuava a sobbalzare sotto i loro piedi. «Volevamo restare, anche se non potevamo rientrare in casa volevamo restare, ma le scosse non ci davano tregua», racconta Maria Laura Sebastiani con un filo di voce e gli occhi le si riempiono di lacrime. Chi in pigiama, altri con i pochi indumenti raccattati alla bell'e meglio nelle case trasformate in trappole, nella notte sono saliti sui pullman messi a disposizione dalla Protezione civile e si sono rifugiati sulla costa, negli alberghi che hanno offerto 6.500 posti letto agli sfollati. «Mio marito è scappato fuori in mutande quando c'è stata la scossa micidiale. Passato il grande spavento, è rientrato per prendere qualche vestito. Dentro era buio e tutto sottosopra. E lui lo sa con che cosa è riuscito? Con il grembiulino del bambino, pensi un po' il grembiulino... ». Trova la forza di sorridere Vittoria, ora che siede a tavola con tutta la sua famiglia, sana e salva, davanti a un piatto di spaghetti fumanti nella sala ristorante di un albergo 4 stelle al centro di Pescara. Molti degli sfollati ospitati in un centinaio di hotel sulla costa abruzzese ieri hanno trascorso le ore della mattina a fare compere, non per diletto ma per necessità. «Una camicia, un paio di pantaloni, le scarpe no, non le ho acquistate, ho quelle mie, ma sono pesanti e qui invece c'è un sole quasi estivo» racconta Franco Ciccozzi. Sua moglie è una dipendente del Genio civile dell'Aquila. «Oggi - dice la signora - dovrei essere al lavoro, ma il mio ufficio non esiste più. L'Aquila non esiste più. Il suo patrimonio artistico si è sbriciolato in un istante. E poi l'ospedale: hanno impiegato trent'anni a costruirlo, era stato ultimato nel 2000 e ora è inagibile». Laura, la loro figlia diciassettenne, li ascolta in silenzio. Frequenta il penultimo anno del Liceo classico, è una studentessa modello («ha la media del 9», precisa il padre con orgoglio) e ora non sa se e quando potrà tornare a scuola. «Il mio Liceo non è crollato, e questo è già qualcosa - commenta Laura -. Spero di poter ultimare l'anno. E spero di rivedere tutti i miei compagni. In questa tragedia ho perso due amici, una ragazza di 15 anni e un ragazzo di 17. Ma dei compagni di scuola non ho notizie...». Non sa nulla dei suoi alunni neanche Antonella Brasca, insegnante di Paganica. «La scuola media è crollata, mi auguro che gli studenti siano tutti salvi. Un mio collega è morto, anche sua moglie e i figli...» e qui la voce le si spezza. Suo padre Giuseppe, 88 anni insospettabili, la notte della catastrofe non solo è riuscito a mettere in salvo la pelle ma, scalzo, ha anche soccorso una madre con la sua bambina. «Abitano davanti a casa mia, in via Arco del Capro, erano rimaste intrappolate al primo piano. Sentivo le loro grida di aiuto, allora - racconta Giuseppe - mi sono caricato una scala di quattro metri, l'ho appoggiata al muro del palazzo e le ho aiutate a scendere dalla finestra». I ricordi di quella notte si mescolano agli interrogativi sul futuro. Nessuno sa con certezza quando potrà rientrare in casa, almeno per una prima ricognizione dei danni. «Lo Stato non ci abbandoni - ammonisce con foga Giovanni D'Ambrosio -, non si perdano anni per ricostruire L'Aquila. A Berlusconi chiedo di non lasciarci mesi e mesi nei container». Prima di trovare il pullman che l'avrebbe portato a Pescara, D'Ambrosio con la sua famiglia ha vagato a lungo nella notte all'Aquila. «Ci mandavano da un posto all'altro - spiega -, non c'era un coordinamento tra i vari gruppi della Protezione civile». Fulvio Giustizia, docente di archeologia, conferma le disfunzioni ma allo stesso tempo assolve i volontari: «Magari sarebbe bastato qualche avviso con un megafono, ma in quelle ore la Protezione civile aveva altro a cui pensare, c'erano i morti, i feriti, noi almeno eravamo vivi. Qui ci sentiamo al sicuro, siamo stati accolti con calore. Dai pescaresi stiamo ricevendo una grande solidarietà: questa mattina sono andato a comprare un caricatore per il telefonino, il mio è rimasto sotto le macerie. Il negoziante, quando ha capito che venivo dall'Aquila, non ha voluto farmi pagare». Lontano dalle scosse, si riacquista un briciolo di serenità, anche se il pensiero corre sempre alla propria casa e a un futuro che appare buio. «All'Aquila ho un negozio di fiori, mi occupo anche di opere di giardinaggio, mi sono fatto una buona clientela - spiega Rossano Perilli -. Ora non ho più una casa e la città è in ginocchio: che cosa ne sarà della mia attività? Sto pensando di andarmene dall'Aquila, per ricominciare da zero da un'altra parte. Magari da qui, da questa città che in questo momento difficile mi sta dando ospitalità. Ma so già che sarà dura».