Pasolini, via alla quarta inchiesta
«La morte non è nel non poter comunicare, ma nel non poter più essere compresi», scriveva Pier Paolo Pasolini, che per essere «compreso» ha dovuto attendere almeno un paio di decenni dopo la sua morte. Una fine che ancora oggi, a distanza di 34 anni, è avvolta nel mistero o perlomeno conserva molti punti d'ombra. Tre inchieste sono state avviate per fare luce sul tragico epilogo di questo poeta, scrittore e regista lungimirante e visionario insieme. Invano. La verità è rimasta una chimera e lo stesso assassino reo confesso dell'intellettuale controcorrente, Pino Pelosi, nel tempo ha cambiato più volte versione. Per questo il 27 marzo l'avvocato Stefano Maccioni, coordinatore di «Giustizia per i diritti», e la criminologa Simona Ruffini hanno chiesto che le indagini sull'omicidio dell'Idroscalo di Ostia vengano riaperte. Richiesta accolta ieri dalla procura di Roma. Il sospetto è che ci sia un collegamento fra la scomparsa di Pasolini e quelle di Enrico Mattei, il presidente dell'Eni che voleva garantire all'Italia un'impresa energetica nazionale, e del giornalista siciliano Mauro De Mauro. L'istanza è stata presentata al termine di una serie di accertamenti portati a termine dalla criminologa e dall'avvocato che combaciano con le conclusioni del libro «Profondo nero» di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza. Sulla base della inchiesta condotta dal pm Vincenzo Calia sulla morte di Mattei, i due autori ipotizzano appunto una connessione con quelle di De Mauro e dell'autore di «Scritti corsari». Il volume è stato allegato alla richiesta di riapertura delle indagini. «In particolare - spiegano Maccioni e Ruffini - appare quasi paradossale che prima di porre definitivamente la parola fine su questa inchiesta non si sia proceduto a svolgere i necessari accertamenti tecnici scientifici sui reperti custoditi nel museo criminologico di Roma, come peraltro sostenuto anche dal comandante del Ris dei carabinieri, Luciano Garofano». Nel libro di Lo Bianco e Rizza, Pino Pelosi conferma - per la prima volta con nomi e cognomi - che quello di Pasolini fu un omicidio politico. La notte tra il primo e il due novembre del 1975 furono in cinque a massacrare a calci, pugni e bastonate (per poi martoriare il suo corpo passandoci sopra con l'automobile) lo scrittore che aveva denunciato i retroscena del potere e che stava lavorando al romanzo «Petrolio» dedicato a Eugenio Cefis, indicato come vero fondatore della P2 e «grande manovratore» del potere più oscuro (una parte del manoscritto originale venne rubato a poca distanza dal delitto). Pelosi, inoltre, non incontrò casualmente il regista quella sera: c'era un appuntamento fissato esattamente una settimana prima. «Pino la Rana» ha rivelato che tra quei cinque c'erano i due fratelli Borsellino, Franco e Giuseppe, uccisi molto tempo fa dall'Aids, e forse il terzo potrebbe essere, nonostante le smentite di Pelosi, Giuseppe Mastini, soprannominato Jhonny lo Zingaro. Buio totale sugli ultimi due nomi, invece. Nel museo romano di via del Gonfalone sono custoditi gli abiti che il poeta indossava quella notte maledetta, un pullover verde, un paio d'occhiali e, soprattutto, una camicia sporca di sangue. «Una quantità di tracce ematiche più che sufficiente per l'analisi del Dna che, inspiegabilmente, non è stata eseguita su questi reperti neanche durante la terza inchiesta del 2005 - sottolinea la criminologa Ruffini - Il sangue potrebbe essere della vittima, dell'assassino o di ambedue. Nel museo, infine, c'è un plantare numero 41 che non era di Pasolini e nemmeno di Pelosi». Le indagini sono state affidate al pm Diana De Martino. È un magistrato esperto e preparato. La speranza è che possa mettere la parola fine su uno dei più atroci delitti del Belpaese. Il massacro di un poeta.