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Indro, testimone del '900

Indro Montanelli

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{{IMG_SX}}Gennaio 1958 Firmato il contratto con Gunther per la Storia di Roma. Ma guarda un po' questi tedeschi: hanno Mommsen e Gregorovius, per Roma, e traducono Montanelli. Venezia, 8 settembre A pranzo con Montale. Lo trovo meglio dell'ultima volta che lo vidi, mesi fa, ancora sotto il trauma della morte della moglie. Il bicchiere, quando è vuoto, lo porta alla bocca con gesto quasi disinvolto; quando è pieno, no: lo tiene con ambedue le mani fissandolo con occhio terrorizzato. Anche nel camminare, va meglio. Ma per fargli salire la scalinatella della Fenice, ho dovuto tenerlo per il braccio. Gli ho parlato della successione di Cecchi. Ha accettato. Vorrebbe, dice, un impegno col «Corriere» di un paio di articoli al mese che, aggiunti alla pensione, gli consentirebbero di vivere comodamente a Firenze e di tornare alla poesia. Gli ho detto che l'idea mi sembra eccellente e che a Milano ne parlerò subito a Russo e Stagno.   Roma, 14 novembre 1966 Gronchi ha replicato con una inviperita lettera al «Corriere» a un mio trafiletto contro l'Aventino, di cui egli ha voluto commemorare in Senato il quarantennio. Questo povero (per modo di dire) ladro di polli non immaginerà mai che tripudiante domenica mi ha fatto passare a rispondergli. Ho rinunciato perfino alla partita di calcio. Attacchi come il suo, io sono pronto a pagarli, tanto mi stimolano e ispirano. Ho per bersaglio uno degli uomini più impopolari d'Italia. Ho dalla mia gli argomenti più sentiti e condivisi dalla pubblica opinione. E, rifacendomela con un "potente" (che non può nulla), passo anche per un eroe. Domani sarò cresciuto di parecchi palmi nella considerazione dei lettori, i quali non sapranno mai quanto calcolo c'è nella mia audacia, quanta "bottega" nella mia spavalderia.   Castiglioncello, 5 luglio 1969 Fra ieri e oggi, Spadolini mi avrà chiamato al telefono dieci volte e mi ci avrà tenuto due ore. Doveva rendermi conto non tanto della nuova scissione del partito socialista e della caduta del governo, quanto della parte che lui vi ha avuto. È andato dalla mattina alla sera (in aereo!) a Roma, chiamato da Saragat per svolgere una missione distensiva presso Tanassi e gli autonomisti che sembravano i più decisi alla rottura. Era convinto di esserci riuscito. Aveva ordinato all'ufficio romano d'impostare le corrispondenze sullo scampato pericolo, era tornato (sempre in aereo!) a Milano, e qui aveva trovato l'annunzio che la rottura l'avevano fatta De Martino, Mancini e Giolitti. Non capivo se era furente per lo smacco o tripudiante per esservi stato così direttamente coinvolto. Una frase rivelatrice: «Sebbene mi pregasse di cooperare all'unità, ho capito che Saragat, in cuor suo, voleva la scissione ». Per dirlo lui...Mi ha anche preannunziato la tesi del suo prossimo editoriale: sarà per metà un ammonimento a tutti sui rischi della situazione, per l'altra metà una serie di suggerimenti per la formazione del nuovo ministero. Spadolini e io andiamo d'accordo perché ci compensiamo: lui scrive pensando a Rumor e a Moro, io pensando al ragionier Brambilla e al cavalier Rossi. Così il «Corriere» concilia autorevolezza e popolarità.   Castiglioncello, 10 luglio Lettera di Prezzolini che mi ringrazia perché l'ho citato in due articoli. Dice: «Ti sono grato di queste continue testimonianze di affetto e di simpatia...». Non è vero. Preferirebbe che non parlassi affatto di lui, o che ne parlassi male, per poter pensare che anch'io l'ho dimenticato o tradito, che non c'è nessuno, proprio nessuno, che gli sia rimasto amico. Non gli darò questa soddisfazione. Voglio che muoia almeno con un piccolissimo dubbio sulla ingratitudine degli uomini, su cui per tutta la vita ha fatto così comodo assegnamento.   Castiglioncello, 17 luglio Un articolo da Cape Kennedy di Moravia, pieno di livore antiamericano. A inspirarglielo non dev'essere soltanto la smania di accreditarsi presso i contestatori, ma anche la rabbia di non essere fra i protagonisti dell'avvenimento.   Castiglioncello, 23 luglio Spadolini è arrivato, per passare mi ha detto – una giornata con me. Ne è capacissimo. Una giornata con me significa un monologo di ventiquattr'ore sul «Corriere», sulla crisi di governo, su Saragat, su Rumor, su Moro, su Fanfani, su De Martino, su Nenni, su La Malfa. Si parla anche della luna, si capisce. Ma la luna, per lui, è l'aumento di tiratura del giornale – che ha sfiorato il milione – e il corroborante riflesso che potrà esercitare sul centro-sinistra.   Milano, 25 novembre Solo ora mi mostrano l'articolo che Bocca mi ha dedicato sul Giorno. Gli avevo mandato la mia Italia del Seicento con una dedica affettuosa in cui lo chiamavo «ami-nemico». Lui ne informa i lettori, ma mi risponde da nemico dichiarato, con una stroncatura sgarbata. Non vorrei cadere in peccato di presunzione. Ma credo che sia stato per differenziarsi da me, per non diventare una mia copia, che si è costruito un personaggio antitetico al mio: eternamente impegnato, intransigente, accigliato, e costretto a una perpetua polemica con tutto ciò che io rappresento. Ma anche lui ne capisce l'artificiosità ed evita il contatto con me perché teme che lo costringa a prenderne atto. Se potesse, mi sopprimerebbe. Eppure, sono io a sentirmi colpevole verso di lui che, senza di me, sarebbe diventato un grande, un grandissimo giornalista, e non soltanto un inquisitore, molto spesso sbagliato.   Roma, 28 dicembre Moravia ha fondato, insieme a Pasolini e a Dacia Maraini, un «comitato contro la repressione». E la riprova che la repressione non c'è. Se ci fosse, Moravia sarebbe coi repressori, come ha dimostrato avallando col suo silenzio la persecuzione di Solzhenitsyn in Russia.   Roma, 2 gennaio 1970 Moravia si è ritirato dal comitato che lui stesso aveva fondato. Ma non per i silenzi di Spadolini. Si è ritirato perché l'Unità ha disapprovato. Gl'italiani sono sempre pronti a fare la rivoluzione, purché i carabinieri siano d'accordo. E Moravia è sempre pronto a battersi per la libertà purché sia d'accordo il piccì. Roma, primo maggio Il papa ha preso le sassate a Cagliari, e ha deplorato i giornali che hanno riferito l'episodio, mettendosi in polemica con essi, compreso il «Corriere». Non ha proprio orecchio, pover'uomo, e non ne azzecca una. Spadolini ha risposto con un corsivo puntuale e dignitoso. Gli telefono per complimentarmi. «Hai parlato benissimo» dico. E lui: «Da papa a papa».   Milano, 10 giugno A colazione con La Malfa, trionfante per la vittoria del suo partito che ha quasi raddoppiato i suoi voti. Me ne attribuisce gran parte del merito per la dichiarazione che feci in televisione, e forse un pochino me ne spetta davvero.   Milano, 14 novembre Colazione di "vecchie glorie": Wally, Joséphine Baker e – ahimè! – io. Fisicamente, Joséphine la sua gloria la porta bene, molto meglio di quanto mi aspettassi. Il viso se lo sarà rifatto, ma il corpo è asciutto e la pelle delle braccia quasi immacolata. Parla ancora un francese viziato dall'accento americano e si arrabatta a lavorare nei "gala" per tirare avanti la sua famiglia di "martinitt" perché non ha più un soldo.   Cortina, 7 settembre 1971 Gentile è morto. A un tratto. Senza avere il tempo di stendere il bilancio di una vita sprecata. Per fortuna era ateo. O per disgrazia. Avesse temuto di doverne un giorno rispondere a Dio, avrebbe fatto ben altro uso del patrimonio di talento che Dio gli aveva dato. Spadolini mi ha chiesto di scrivere qualcosa di lui. Scriverò questo. E Afeltra avrà di nuovo ragione a dire che non son tagliato per l'orazione sul cadavere caldo.   Cortina, 3 marzo 1972 Alle sette di sera, mi telefona Afeltra: «In questo momento hanno licenziato Spadolini e assunto Ottone. Attacca il ricevitore: ora ti telefona Corradi per darti i particolari».   Milano, 6 marzo A cena da Spadolini e sua madre. È euforico, o almeno si sforza di sembrarlo. «Ho in tasca tre pistole» dice, «con cui posso fulminarli, quei porci: l'editoriale di domenica, quello di addio, e la tribuna elettorale». Milano, 8 marzo La mia intervista sull'Espresso ha deflagrato come una bomba. Spadolini è furente per l'articolo che la precede, scritto dalla Serini che ricostruisce gli avvenimenti. Lui non ci fa una bella figura, ma purtroppo il resoconto è esatto. Ronchey mi telefona: «Ti aspettiamo alla Stampa: il contratto è pronto, non hai che da firmarlo». «Prima» dico, «devo perdere la mia battaglia». «Questione di qualche mese» fa lui. Temo che sia proprio così.   Lussemburgo, 23 maggio 1977 Volo a Lussemburgo sul solito bireattore di Berlusconi, che ci accompagna, felice di esibirsi e di esibire il suo status in una cerimonia internazionale. La medaglia d'oro (ma è proprio d'oro?) me la consegna Gaston Thorn, capo del governo lussemburghese e presidente del movimento europeo. Bettiza, che mi ha procurato il premio e nella sua qualità di parlamentare europeo mi fa da padrino, cerca di attribuire alla cosa molta solennità. In realtà mi sembra un evento piuttosto modesto. (...) Berlusconi riempie il suo taccuino d'indirizzi: quelli di tutte le personalità che ha incontrato. È il vero climber che approfitta di tutto e non butta via nulla.   Milano, 2 giugno È la festa della Repubblica. Io la celebro ricevendo nelle gambe quattro pallottole di rivoltella, calibro 9. Me le sparano alle 10.10, appena uscito dall'albergo Manin, alle spalle. Faccio a tempo, voltandomi, a vedere uno dei due killer che seguita a sparare da una distanza di 4-5 metri. Ma sono talmente sorpreso e frastornato che non riesco a fissarne nella memoria il volto. Aggrappandomi all'inferriata dei giardini pubblici, penso: «Devo morire in piedi!». Questo pensiero stupido, retaggio sicuramente del Ventennio...   Milano, 3 giugno Anche l'Unità esce con un titolo a sette colonne in cui campeggia il mio nome. Lo stesso fa Repubblica, ma con un articolo di Scalfari ancora più infelice di quello che scrisse dopo Bontà loro per chiedere la mia esclusione dalla tv nazionale. Sostiene la strana tesi che l'attentato è stato organizzato contro i nemici di Montanelli, cioè contro di lui, insinuando così il sospetto che me lo sia organizzato da me. Il mio successo lo riempie di un furore che lo fa sragionare. Ma la cappella più grossa la fa il Corriere che titola su cinque colonne sul centro pagina: «Attentati contro giornalisti», mettendo il mio nome solo nel sommario. Biazzi ha il sangue agli occhi. Bettiza mi chiede di rispondere, nell'editoriale di domani, sia a Scalfari che a Ottone. Glielo concedo, ma a patto che mi mostri prima il testo: durezza sì, meschinerie no.   Milano, 16 novembre Quattro revolverate in faccia a Casalegno, che ora è grave. Alzano la mira.   Milano, 18 novembre La Stampa riporta tutti gli articoli di solidarietà per Casalegno apparsi sugli altri giornali. Ma omette il mio, ch'era forse il più caldo: la solidarietà nostra la imbarazza.   Milano, 29 novembre Casalegno è morto. Ho telegrafato alla vedova, ma non al figlio — iscritto a Lotta continua —, né a Levi e ai colleghi della Stampa. Purtroppo, la loro faziosità condiziona la nostra solidarietà. Al funerale andrà Biazzi.   9 maggio 1978 Il cadavere di Moro, lasciato su una macchina fra Botteghe Oscure e piazza del Gesù, ci coglie di sorpresa. Siamo stati duri nei suoi confronti. La sua fine miseranda c'ispira un sentimento di pietà, ma fa sorgere altri pericoli contro cui occorre subito mettere in guardia: in nome del «martire», i suoi cercheranno di spingere avanti la sua «linea». (...) Ho avuto a Torino una franca spiegazione con Gianni e Umberto Agnelli. Per la prima volta Gianni ha parlato e mi ha lasciato parlare per un'ora dello stesso argomento, senza annoiarsi com'è solito. Ma vuole la rottura della Dc, mentre Umberto ne vuole la conquista. Romiti mi assicura che accetterà la proposta di Venini per il Giornale. Si comincia a respirare.   11 maggio Bernabei mi chiama a Roma per comunicazioni urgenti e riservatissime. Gli mando Melani. Bernabei gli dice, a nome – si capisce – di Fanfani, che occorre liquidare Andreotti, il quale si propone di mandare Zaccagnini al Quirinale e Forlani alla segreteria del partito per spingere a fondo l'accordo coi comunisti. Secondo Bernabei, come sempre fantasioso, Moro è stato ucciso perché Russia e America, concordemente, non vogliono il Pci al governo in Italia, quindi sarebbero stati Cia e Kgb a eliminarlo. La stessa tesi esposta da Battaglia sul «New York Times» che lo ha invitato per fare da controcanto al mio editoriale, contro cui i corrispondenti italiani in America avevano violentemente protestato. Questi americani! Ma anche questi democristiani! Si preparano a scannarsi di nuovo. Ma Fanfani s'illude. Il vero padrone è ormai Andreotti. Nemmeno le dimissioni di Cossiga lo hanno scosso perché i comunisti lo sostengono. Tutto sta a vedere se vorrà comandare dal Quirinale, da Palazzo Chigi, o da piazza del Gesù.   Proprietà letteraria riservata © RCS Libri S.p.A. Milano

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