I colossi bancari sono un rischio
«La parola d'ordine? Spezzettamento. Nel mancato spezzettamento dei grandi gruppi bancari mondiali sta la ragione della crisi. E in uno spezzettamento di questi giganti sta la chiave per ricostruire una finanza sana, con banche slegate dalla politica che facciano l'interesse di imprese e famiglie: e anche il proprio, con risultati vincenti sul mercato. O che al contrario possono morire senza drammi, se falliscono l'obiettivo. Drammi che oggi, invece, il mondo ha dovuto patire dopo il crollo di un colosso come Lehman e il panico scoppiato da lì in tutto il globo». È agile e pragmatico Christian Miccoli, giovane amministratore delegato di CheBanca!, ancor più giovane banca retail del Gruppo Mediobanca nata da neanche un anno ma con clienti (e depositi) da capogiro. Da manager "puro", va al punto: «Non dovrebbero esistere banche così grosse da non poter fallire. Che ogni anno qualche banca fallisca, va anche bene. Ma quelle troppo grandi non possono né devono farlo: se no è il terrore. Questo però è un problema. Anche quando vengono salvate, la difficoltà non è risolta. Non si fa l'interesse vero del cliente. È la natura di quei colossi che va cambiata. Spezzettarli in tante realtà locali e nazionali renderebbe tutto più semplice». Paradossalmente, qualche banca sarebbe stato meglio farla fallire? «Dopo il caso Lehman era impossibile. Far fallire altre banche era l'ultima cosa da fare. Il panico era generalizzato, la situazione si sarebbe fatta ingestibile. La gente andava tranquillizzata. Ma il problema è a monte. Nell'investment banking i player globali attivi sono solo quattro o cinque: una concentrazione di potere pericolosissima. Se uno di questi salta, mette nei guai tutto il mondo. Il crollo Lehman infatti ha messo in ginocchio un pianeta intero. E di mine vaganti siamo pieni. Questi gruppi tanto imponenti possono fare ciò che vogliono. Si collegano alla politica, sono in grado di influenzarla. E la politica non può farli fallire. Se succede, finiamo tutti nei guai. Se non succede…». …Se non succede, le banche sono salve e i soldi dei clienti pure. Ma questo sarebbe un palliativo, più che una soluzione? E allora i "Tremonti Bond", essenziali per la riapertura di credito a imprese e famiglie? «Quella è stata una via obbligata. Tutto il sistema sembrava a rischio: non si può certo criticare l'intervento. Ma non è una notizia ottima dal lato del cliente. Se una banca richiede i Tremonti Bond e poi deve concedere mutui anche a chi non avrebbe dovuto fruirne, è evidente che poi recupererà altrove. In Borsa stanno risalendo le banche che hanno chiesto i Tremonti Bond: le stesse che, dal lato della gestione del mercato, dovrebbero uscirne. Il collegamento tra banche e Stati si è fatto ancora più forte. La logica di competizione si è ridotta e, nell'ottica del cliente, non è certo un vantaggio. È uuna situazione straordinaria, in cui lo Stato salva alcune banche, richiedendo però un impegno diverso da quello economico stretto. Nell'insieme siamo ancora nel patologico». Ci saranno cambiamenti negli equilibri dei grandi gruppi bancari? «Sta prevalendo la logica della conservazione, della stabilità del sistema. Il rischio è che non cambi niente. Ma questo intreccio a filo doppio tra colossi finanziari e potere politico va dipanato. I "colossi" non dovrebbero più esserci. Io li spezzetterei tutti». È lì la radice della crisi? «Sì, nel gigantismo di certe realtà finanziarie, ormai ingovernabili. Il capo di una citybank presente in 90 Paesi non può sapere cosa accada nel Paese X. Magari ci sono in giro prodotti rischiosi, ma lui non ha modo di verificarlo. E poi c'è il ricatto politico: "Se io sono così grande, non puoi più farmi fallire". Di fronte a quei gruppi americani inquietanti, o si crea un'unità di controllo globale - una "Banca Centrale Mondiale Onnipotente" in stile Grande Fratello - oppure, dato che le strutture di controllo sono tutte locali, rendiamo locali anche le banche. Garantiremmo così sinergia nei controlli. Altrimenti lo squilibrio resta insanabile». "Etica del business", il "codice etico" richiamato da Tremonti anche per le retribuzioni dei manager: non sono queste le priorità oggi? «Sono diffidente quando si parla troppo di etica. L'azienda deve produrre un utile, garantendo il bene del cliente e di chi lavora in banca. Il resto è compito dello Stato, che può impiegare il capitale delle tasse per fini sociali. Quanto ai manager, l'America ha mostrato situazioni assurde. I bonus devono essere legati al risultato. Ma in Italia lo scandalo è un altro: le rendite di chi detiene grandi patrimoni immobiliari, senza saper fare nulla o rischiare alcunché. Questi hanno in mano la ricchezza finanziaria vera, con introiti che un Profumo neanche si sogna. Conservatori nel midollo, vivono nel migliore dei mondi possibili: ogni cambiamento dello status quo può danneggiarli. Profumo ha guadagnato, ma rischia in prima persona e ha dato a tanti un lavoro qualificato. Chi è meglio allora, un Profumo, pur con tutti i suoi errori, o chi non produce nulla ed è una zavorra per l'economia? Questa gente è invisibile, non fa notizia. Ma il problema è lì».