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«Servono risorse per nuove carceri»

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«Seuna nomade fermata per furto viene rimessa in libertà non è colpa dei magistrati. Loro applicano le norme. I problemi della giustizia sono altri». Per Giuseppe Consolo, avvocato, deputato del Popolo della Libertà e docente univeritario di Istituzioni di diritto Pubblico, i problemi sono fondamentalmente due: «Il primo legato alla nostra legislazione, il secondo alla mancanza di fondi». Dove s'inceppa il sistema? «S'inceppa tra la prima fase e il giudizio. È un insieme di cose che compromettono la celerità del processo arrivando in alcuni casi a 8, 10 anni». Chi deve rimediare? «Devono farlo i legislatori utilizzando tutti i rimedi possibili affinché il tempo tra la fase investigativa e giudicante sia sempre più breve. Ed è necessario che sia tutelato sia il diritto dei cittadini ad avere giustizia, sia ad avere un giusto processo». Veniamo a cose più pratiche. Perché le forze dell'ordine spesso e volentieri sono costrette a fermare persone che hanno arrestato pochi giorni prima, magari per lo stesso reato? «Bisogna intanto premettere che la carcerazione preventiva, nel nostro codice, è un'eccezione. Quindi se non c'è pericolo di reiterazione del reato, inquinamento delle prove e pericolo di fuga, non si va in carcere». I cittadini avvertono molto questo aspetto, e spesso s'indignano. «C'è poco da indignarsi. I dati ci dicono che nel nostro Paese per il 70 per cento degli imputati i processi si concludono con una sentenza di non colpevolezza. I diritti dei cittadini vanno tutelati. L'esempio di Racz, il romeno che era stato fermato per lo stupro della Caffarella è un esempio eloquente dei rischi che si correrebbero abusando della carcerazione preventiva». In che situazione sono ora le carceri? «Sono piene. Il numero dei detenuti è arrivato a quota 60mila. Se per tutte le persone fermate per reati di lieve entità i giudici applicassero la custodia cautelare in carcere gli istituti scoppierebbero». Il numero dei rimpatri di clandestini è ancora basso, perché? «Ove ricorrano le condizioni per il rimpatrio dovrebbero essere assolutamente rispettate. Ma il problema è a livello internazionale. I paesi d'origine non se li riprendono. Spesso hanno commesso reati di cui la giustizia italiana non è a conoscenza. Del resto è già così difficile riuscire a identificarli». In che direzione bisogna muoversi per risolvere quest'impasse? «Bisogna stipulare trattati internazionali». Per accorciare i processi servono soldi. Ci sono? «Se si pensa ai 200milioni di euro l'anno che lo Stato spende per le intercettazioni viene da rispondere sì. Ma il ministro Alfano non ha la bacchetta magica». Ma servono anche per costruire nuove carceri. «Non solo. Bisogna creare strutture adeguate alla funzione rieducativa della pena. Mi viene in mente l'incremento del numero degli psicologi e degli asili nido per le detenute che hanno dei bambini». Un problema reale, se si pensa, per esempio, alle donne che compiono reati lievi. Non c'è il rischio che i giudici, vista la situazione, tendano a non complicare le cose allo Stato e ad essere più clementi? «È quello che bisogna evitare. La certezza della pena dipende anche dalla capacità del sistema giudiziario di affrontare esigenze di questo tipo». Mat. Vin.

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