Il manifesto «Fini, la persona»? È suo.
Èfu anche lui ad andare assieme a pochi eletti in maniera semiclandestina in un piccolo appartamnto del centro di Roma a metter su il nuovo partito. E fu lui a mettere in moto la prima Forza Italia. E lo slogan «Roma cambia» che ha portato Alemanno alla vittoria l'anno scorso? È suo anche quello. Lui è Massimo Arlechino. Un publicitario che in qualche modo il Pdl l'ha realizzato quindici anni fa partecipando al parto sia di An che del movimento berlusconiano. Oggi è consigliere per la comunicazione del ministro Scajola. In quel torrido '93 aveva uno studio nel centro di Roma, due passi dal Pantheon. Il Msi comunicava ancora quasi esclusivamente ai suoi. Fu tutto veloce, rapido. «Per la costituzione di Alleanza nazionale lavorammo l'intero '93, migliaia di telefonate per la formazione dei Circoli. "Pronto, qui è Alleanza nazionale". "Grazie, sono già assicurato". Questa era la risposta più frequente, poiché ci scambiavano per una compagnia di assicurazione» Poi la decisione di Fini di candidarsi a sindaco di Roma. Arlechino si ritrovò ad organizzare la campagna elettorale. Oggi racconta: «Organizzai a via della Scrofa il servizio fotografico per l'allora segretario Fini. Il fotografo fece oltre duecento scatti dei più classici. Doppiopetto. Fini che camminava. Fini immobile. Fermo. Impettito. Alla fine gli dissi: "Gianfranco, ne facciamo quattro senza giacca". Mi guardò come se stessi dicendo un'eresia ma cedette e si affidò». Nacque così il manifesto «Fini, la persona», il candidato in maniche si camicia e giacca sulla spalla. Senza simbolo di partito, linguaggio aperto, arioso. Via i riferimenti ai ladri, ai tangentari, di quelle settimane. Fu la svolta. Ma perché Fini, la persona? «È chiaro che già allora Gianfranco aveva un'immagine fortissima, ben più forte del partito. Fu normale puntare tutto su di lui». E perché la giacca sulla spalla? «Fu una decisione da pubblicitario, una scommessa anche. Occorreva un'idea forte per rompere lo stereotipo del doppiopetto attribuito ai politici di destra. E l'immagine seria e pulita di Fini, suo malgrado, rischiava di prestarsi a questo tipo di identificazione. Volli ricercare il dinamismo, trasmettere la volontà di fare, di apprestarsi a lavorare rimboccandosi le maniche, cominciando, quindi, col togliersi la giacca. L'idea fu quella». Poi la campagna elettorale: «Fu una cosa travolgente, senza sosta». Il primo turno, poi il ballottaggio, Berlusconi che annuncia che se fosse stato elettore a Roma avrebbe scelto Fini: «Non credo che Gianfranco lo sapesse. O almeno io non avevo sentito nulla del genere nei giorni precedenti e nemmeno quella mattina. Chi pensa a grandi retroscena credo si sbagli. Fu tutto così, spontaneo. Ricordo che alla fine appariva possibile addirittura la nostra vittoria, non avevamo termini di paragone. Qualcuno tra noi era anche spaventato. Ho un ricordo divertente della sera dello spoglio: in overdose di frequentazione per la lunga campagna elettorale, con Fini ci promettemmo di mangiare separati per rivederci successivamente al partito. Andai a mangiare con mio figlio che non vedevo da settimane, entrammo in un ristorante e trovammo seduto Gianfranco». E quella foto di Fini con la giacca sulla spalla la conserva ancora? «Non ce l'ho io». E chi ce l'ha? «La volevano tutti. Che fine abbia fatto è un segreto di Gianfranco e sua figlia Giuliana». La voce di Arlechino si incrina un po', si commuove: «Scusi, ma tornano ricordi cari. Chi dice che Fini è un uomo cinico, che non ha emozioni non gli ha mai nemmeno stretto la mano». E dopo? «Dopo - e la voce torna entusiasta - si arriva all'Assemblea Costituente di An. Siamo alla fine del gennaio 1994 all'hotel Ergife di Roma, fui proprio io ad aprire i lavori e a dare il benvenuto agli 800 delegati. La conclusione di un lungo lavoro durato un anno di Urso, Fisichella, Rebecchini, Ramponi, Ronchi, ma tanti altri, sotto la guida di Tatarella, svolto in un microscopico appartamento in via del Pantheon, proprio di fronte al ristorante che ospitava, ignara, l'itera nomenclatura politica di quegli anni. C'era qualche scrivania, un solo computer prestato da Amina Gasparri, la moglie di Maurizio, un paio di telefoni e un divano vecchio, brutto e persino sporco. Ma lì, su quel divano, si sono accomodati tutti. Proprio tutti. Quanti vip, per tutti c'era il battesimo: primo incarico, imbustare le lettere. Se passavano quella si andava avanti». E fu lui a disegnare il nuovo simbolo metà azurro e metà bianco: «Un giorno mi chiamò Fini e mi chiese di cominciare a disegnare il nuovo logo. Prese una penna e buttò giù uno schizzo che poi elaborammo in vari modi. Lo conservo ancora». Dopo An gli tocca metter su l'altro partito del centrodestra, Forza Italia. «Mimmo Mennitti, uno dei miei più grandi amici, venne chiamato dal Cavaliere a fare il primo coordinatore nazionale di Fi e mi chiese un aiuto. Tatarella non la prese bene, anzi mi tolse il saluto, ma non potevo dire a Mimmo di no. Mi costò carissimo naturalmente e oggi, mentre si fonda il partito unico, mi piacerebbe poter ripetere a Pinuccio, la domanda che gli posi quindici anni fa». E cioè? «Ma qui o lì, non stiamo lavorando per un obiettivo unico?». Quindi ha lavorato anche con il presidente Berlusconi? «Per Berlusconi, più che con Berlusconi. Ma dei contatti con lui ho il ricordo di una straordinaria attenzione per le persone e di una grande umanità. Potrei riempirla di aneddoti». Forza, racconti. «Ero alla fermata dell'autobus di piazza Venezia, di fronte al bar Castellino e avevo un appuntamento personale importante, ero anche un po' in ritardo. Era estate. Arrivava il bus e stavo per salire quando si fermano le macchine di Berlusconi che desiderava prendere un gelato. Mi vide e mi invitò a prendere un cono. Non potevo davvero e dispiaciuto ringraziai e salii sul bus. Non mi ero reso conto che a bordo avevano tutti assistito alla scena; fu un momento imbarazzante. Un vecchietto dal fondo mi fece: "Aò, ma chi cazzo sei che te chiama Berlusconi a pijà un gelato con lui e je dici pure de no?"».