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Dalla prima

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Franceschini nel discorso di investitura si è vantato di questa procedura vedendovi una prova di efficienza e vitalità del partito e dei suoi organismi, ma cercando in realtà di nascondere furbescamente il trucco. Che era quello di far correre a Roma per la sua elezione non il maggiore, ma il minor numero possibile di delegati: quelli più facilmente e direttamente controllabili dalla nomenclatura del partito. Alla base, quella vera, non è stato dato né il tempo né il modo di muoversi. Franceschini ha potuto così essere eletto da una stragrande maggioranza sì, ma dei presenti. Che erano meno della metà dei circa 2800 componenti dell'assemblea, o dei 2300 e rotti aventi diritto al voto. È in questi numeri, non nei comizi di Franceschini, la reale dimensione della sua presunta promozione a segretario. D'altronde, quando già Franceschini era stato eletto da un giorno successore di Veltroni, un cronista della Stampa avventuratosi domenica pomeriggio in una sezione romana del partito, aperta per attività di propaganda, si sentiva dire dal vecchio militante comunista Nicola: «Franceschini? E chi lo conosce?» La popolarità degli ex o post-democristiani nel partito superaffollato di ex o post-comunisti si era già toccata con mano allo scoppio delle bufere giudiziarie sulle amministrazioni di sinistra. Dal capo dei probiviri del partito, di un cognome pesante come Berlinguer, cugino del più famoso e riverito Enrico, quello della «diversità» quasi genetica dei comunisti rivendicata negli anni Ottanta, si era levata subito una denuncia sconsolata e allarmata. Troppo diversi, secondo lui, erano i criteri e i livelli di «selezione» della classe dirigente portati dagli eredi del Pci e della Dc nella loro unificazione. Che più recentemente Massimo D'Alema ha definito «un amalgama malriuscito». Francesco Damato

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