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E Veltroni si congeda accusando gli altri

Veltroni

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E da solo si presenta, poco dopo le 11, su un podio allestito all'interno del Tempio di Adriano a Roma. Vestito scuro, camicia sbottonata senza cravatta, il viso serio ma non provato. In prima fila ci sono l'ex prefetto della Capitale Achille Serra e Massimo Calearo, due delle «nuove promesse» che Veltroni ha portato in Parlamento alle ultime elezioni. Poco più in là il fidato Walter Verini. Mentre Goffredo Bettini, l'uomo che con lui ha costruito il modello Roma, se ne resta in piedi qualche fila indietro. Sembra quasi di assistere ad un funerale. La sala gremita, tutti che si stringono nel dolore dell'ultimo saluto e, in mezzo, la salma. C'è solo una piccola differenza: in quest'occasione il discorso di commiato è stato affidato al defunto. Già perché le parole con cui Walter Veltroni spiega i motivi che lo hanno spinto all'estremo sacrificio, altro non sono che un'apologia di se stesso. Il segretario ricorda con quanto entusiasmo raccolse la sfida di costruire, anche in Italia, una grande forza riformista («è la speranza e il sogno politico della mia vita»). Torna con il pensiero al 1996 quando, con Romano Prodi, affrontò la sfida del governo e lavorò allo sviluppo dell'Ulivo («il Pd doveva nascere allora»). Analizza il percorso fatto con lucidità poi, chiede scusa per non «aver corrisposto» alle aspettative di quel popolo che lo scelse come segretario alle primarie del 14 ottobre. Tutto potrebbe finire qui, con il riconoscimento di un fallimento e qualche ringraziamento di rito. Ma Veltroni ha altro da aggiungere. Deve spiegare a tutti che se il progetto si è arenato la colpa non è sua. I «cattivi» sono gli altri. Il segretario non fa nomi ma non è difficile capire a chi sta pensando. Pierluigi Bersani che negli ultimi giorni è diventato l'unico sfidante ufficiale alla leadership del Pd, lo guarda senza lasciar trasparire emozioni e, ogni tanto, bisbiglia sorridendo qualche parola all'orecchio del suo vicino Dario Franceschini. Massimo D'Alema e Francesco Rutelli non hanno neanche fatto la fatica di presentarsi. Finalmente ognuno può fare e dire ciò che pensa e vuole. Così Veltroni spara le ultime cartucce e spiega che, se ha fallito, è perché ha preferito lavorare per «tenere uniti» tutti. E, in fondo, è proprio questo, secondo l'ex segretario, quello di cui il Pd ora ha bisogno: «In questo partito serve più solidarietà. Serve che ci si senta tutti maggiormente squadra, che vi sia una partecipazione comune ad un disegno». Lui intanto, anche se altrove «chi perde non si dimette», saluta e se ne va. Resterà una «presenza discreta» nella speranza che magari, come successo a Prodi, chi oggi lo pugnala sia costretto un domani a pregarlo di tornare. Su una cosa, però, non ha dubbi: «Non farò ad altri quello che è stato fatto a me». Resta giusto il tempo per i ringraziamenti, per ricordare che l'Africa è un progetto che prima o poi realizzerà e per gongolarsi pensando che, d'ora in avanti, quando passeggerà per le strade di Roma e vedrà le opere realizzate da sindaco potrà pensare che «ho passato la mia vita non a fare discorsi e interviste, ma cose per gli altri». In sala c'è anche chi si abbandona alle lacrime. Era proprio bravo questo Walter. Riposi in pace.

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