Lazio, Pd allo sbando tra accuse e vendette
tra accuse e vendette
Le correnti si rafforzano e si intrecciano fino a diventare una matassa inestricabile di vendette e nostalgie. Dopo quindici anni di gestione targata Goffredo Bettini, adesso coordinatore nazionale allora ottavo re di Roma, il partito esplode. Dell'era Rutelli-Veltroni, inaugurata nel 1993 e chiusa con la sconfitta del 2008, è rimasto soltanto il ricordo. Forse aveva ragione Churchill a sostenere che «la democrazia funziona quando a decidere sono in due e uno è malato». Il punto? Nel Pd comandano tutti. Dunque nessuno. E la barca rischia di finire alla deriva. Tanto che lo stesso presidente della Regione Lazio, Piero Marrazzo, stufo dei diktat irragionevoli e dei duelli all'ultimo sangue, avrebbe ventilato per la prima volta la possibilità di passare la mano. Del resto il Pd nel Lazio è diventato ingestibile e si è abbattuto come uno tsunami sul rimpasto della Giunta regionale. Il quadro politico è più complesso del cubo di Rubik: ci sono i veltroniani, alleati con i Popolari, mentre i dalemiani, che hanno un asse con i Lettiani, fanno opposizione. I rutelliani (storicamente amici-nemici dei Popolari) restano alla finestra. Sembra una filastrocca ma la crisi non è soltanto fonetica. Ormai è guerra. Diventata frontale dopo il rimpasto della Giunta deciso (da chi?) pochi giorni fa. Il casus belli è stato la sostituzione dell'assessore regionale al Personale Marco Di Stefano (Pd in quota Enrico Letta) con Francesco Scalia (Pd in quota Giuseppe Fioroni, Popolari). Scalia, presidente ancora per pochi mesi della Provincia di Frosinone, non poteva certo rimanere disoccupato. Ma non è stato possibile fare il cambio più scontato: quello con l'assessore Francesco De Angelis, che a maggio sarà candidato proprio alle Provinciali della Ciociaria. Il vertice (veltroniano) del Pd laziale ha deciso invece di sacrificare Di Stefano (forse anche perché colpevole di non aver votato la leadership di Morassut al congresso locale). Fatto sta che, annunciato il rimpasto, è cominciato il «tutti contro tutti». L'assessore al Turismo (dalemiano) Claudio Mancini ha aperto le danze: «È un cambio interno al Pd che danneggia il partito, oltre che un insulto alle istituzioni». Ha voluto dare una stoccata pure il deputato Ugo Sposetti, anche lui vicino a D'Alema, che lamentando l'assenza di consultazioni ha invitato Marrazzo a non tenere conto delle indicazioni dei veltroniani. Dal canto suo Morassut ha rimandato le critiche al mittente come «un'inutile questione di poltrone». E se Letta ha vivacemente protestato con i vertici nazionali del partito, non c'è stato niente da fare. La sostituzione Di Stefano-Scalia è stata messa nero su bianco e le truppe del Pd sono tornate nelle rispettive trincee. Pronte a nuovi attacchi fulminei. Ieri, nella giornata più lunga di Walter Veltroni, è stata la volta dell'ormai solo consigliere regionale Marco Di Stefano (che rappresenta almeno 20 mila voti di elettori strappati al centrodestra). Già all'ora di pranzo sceglieva la linea dura: «Spero che le notizie che mi arrivano sulle dimissioni di Veltroni corrispondano a verità». Non ha risparmiato critiche nemmeno al segretario laziale del Pd Roberto Morassut: «Il potere annebbia il cervello - ha detto Di Stefano - e con l'attuale gestione Roma è stata consegnata, inaspettatamente, ad Alemanno, il Paese a Berlusconi e, più recentemente, l'Abruzzo e la Sardegna al Pdl. Se continua così, il centrosinistra rimarrà all'opposizione per altri 50 anni». Tra le accuse mosse dall'ex assessore al Personale anche quella di aver ricevuto «pizzini da esponenti della Giunta che occupano posizioni più importanti di quelle degli assessori relativi ad assunzioni per un concorso interno». Parole che hanno spinto il vicepresidente del Lazio (e big del Pd) Esterino Montino a replicare: «Posso affermare con certezza che il presidente e il vicepresidente della Giunta regionale in nessun luogo e in nessun modo hanno mai fatto pressioni a tale riguardo». Un dibattito che dà il senso del livello raggiunto dal Pd.