Alemanno: ora il museo delle foibe
La visita alla foiba di Basovizza, la più grande sul territorio italiano, dichiarata monumento nazionale, è appena terminata. Ma a Basovizza il grande buco nero è stato «tappato» dal monumento. Menia invece chiede di andare a un paio di chilometri di distanza, i sei pullman del «Viaggio nella memoria» organizzato dal Comune s'inerpicano su una stradina nella campagna quasi al confine con la Slovenia, e poi giù, tutti a piedi guidati da Alemanno che, si sa, è un grande esperto di montagna. Si cammina su un sentiero di foglie in mezzo agli alberi spogli, c'è il sole ma c'è un gran freddo, prima di arrivare alla foiba Plutone. L'atmosfera è lugubre, il primo cittadino della Capitale si preoccupa che nessuno si sporga più di tanto, richiama i ragazzi più intraprendenti: «Occhio che le foglie sono più scivolose del ghiaccio». Menia, che arriva alla guida della sua auto personale fa da guida, spiega che qui dentro sono state buttate, dai soldati comunisti di Tito, ottanta guardie carcerarie di Trieste. È una delle pagine nere, quelle pagine «strappate dai libri di storia», aveva detto in mattina Alemanno, e dimenticate. Il primo cittadino butta poi nella fossa profonda quasi duecento metri, una pietra, un grande masso che si sente rotolare nel vuoto per svariati secondi. Un pugno allo stomaco che vale più di tante parole. I quasi duecento ragazzi delle venticinque scuole romane, capitanati dall'assessore alla Scuola Laura Marsilio, restano in silenzio. Alemanno prende la via del ritorno e, marciando a grandi passi con gli scarponi Timberland da trekking, racconta di quando «andammo la prima volta alla foibe di Basovizza, mi ci portò mio padre, avevo sei anni». Un legame profondo quello del sindaco con quanto accaduto in queste terre. «Mio padre era un ufficiale dell'Esercito - narra -, combattè proprio qui, sul fronte jugoslavo. Dopo l'8 settembre rimase frastornato, non aderì alla Rsi. I tedeschi lo presero e lo volevano fucilare, riuscì a scappare. Dopo la guerra tornò nell'esercito e venne destinato a Udine. Poi ogni anno anno si cambiava città. Casarsa, Padova, sempre in quest'area. Non si poteva parlare di foibe, si riusciva a sapere qualcosa grazie e piccole testimonianze dirette, quasi clandestine». Prende fiato e attacca: «Finalmente si sta facendo qualcosa. Dobbiamo fare di più. Stiamo pensando a un museo a Roma. Sul modello del museo della Shoa, più piccolo però. Una casa del ricordo. Oggi c'è solo una piccola struttura all'Eur, poco più di un appartamento, pensiamo invece a qualcosa di aperto al pubblico». Shoa e foibe. Il Novecento. I due viaggi della memoria del Comune. È il filo conduttore dell'intera giornata. Alemanno, mentre è ancora in treno nella notte, fa cambiare programma e fa inserire una visita alla Risiera di San Saba a Trieste, il campo di sterminio gestito dai tedeschi fino al '45. E la città, questo lembo di terra, che passa da un totalitarismo all'altro, da un orrore all'altro perché, spiega, «quando si stacca la spina ai valori dell'umanità ogni deriva è possibile». Nelle sue parole c'è la condanna netta del nazismo. E un'accusa forte al comunismo, «unico responsabile delle foibe». Basovizza e la Risiera. In mattinata la prima tappa era stata il Sacrario di Redipuglia, i centomila morti della prima guerra mondiale. Il sindaco si sofferma quando scorge il nome Alemanno in due lapidi, poi decide di salire tutti i ventidue gradoni. In cima, guardando l'Isonzo lì sotto e i colli in fondo verso Caporetto, ammetterà: «La forza dell'Europa è vivere nella diversità, essere uniti ognuno con le sue identità. Questo è il futuro».