Ma Oscar non è il "santino" che vuole dipingere Veltroni

Quella manifestazione, indetta per martedì, sospesa per la tragica conclusione della vicenda di Eluana Englaro, sulla quale si era consumato un contrasto tra i presidenti della Repubblica e del Consiglio, si è svolta ieri per l'ostinazione del segretario del Pd. Che ha accolto a modo suo, cioè inseguendo Di Pietro sulla strada dell'antiberlusconismo, l'appello ad una «riflessione comune» appena lanciato da Napolitano. Se Scalfaro, presidente della Repubblica dal 1992 al 1999, è il medaglione che Veltroni ha deciso di portare al collo come esempio per tutti, è opportuno ricordarne l'esperienza vissuta al Quirinale. Giudicheranno i lettori se è stata appropriata la scelta di Veltroni, peraltro proveniente da un partito — il Pci — che non ha mostrato sempre il rispetto sacrale per il Capo dello Stato che viene oggi reclamato. Negli anni Sessanta il povero Segni fu trattato dalla propaganda comunista come un aspirante golpista per avere chiesto,durante una difficile crisi di governo,garanzie d'ordine pubblico all'allora comandante generale dell'Arma dei Carabinieri. A cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta, al povero Saragat fu contestato di condividere le denunce politiche degli «opposti estremismi», che avevano il torto di mettere sullo stesso piano i pericoli provenienti dai malintenzionati di destra e di sinistra. Nel 1978 il povero Leone fu costretto a dimettersi perché accusato di corruzione con una campagna giornalistica poi smentita dai tribunali, in realtà per avere osato dissentire durante il sequestro di Moro dalla cosiddetta linea della fermezza. A cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta, contro il povero Cossiga fu tentato più volte, sempre dal Pci, il processo per alto tradimento davanti alla Corte Costituzionale.   Ma torniamo a Scalfaro. Al suo esordio presidenziale egli estese le consultazioni di rito al capo della Procura di Milano prima di rifiutare l'incarico di presidente del Consiglio a Craxi, designatogli dai partiti della maggioranza. Dopo qualche mese i giornali parlarono, non smentiti, di una sua minacciosa sfuriata contro la Camera, che aveva osato respingere la richiesta di arresto di un ex ministro avanzata dalla magistratura per corruzione. Dopo il referendum del 1993 contro il sistema elettorale proporzionale, i deputati democristiani contrari alle norme in discussione a Montecitorio per il passaggio al metodo maggioritario si sentirono dire dal loro capogruppo Bianco che le Camere sarebbero state sciolte immediatamente dal Capo dello Stato se avessero indugiato. Il Parlamento si affrettò ad approvare la nuova legge. Ma lo scioglimento anticipato, reclamato a gran voce dal Pds-ex Pci guidato da Occhetto, arrivò lo stesso. Fu inutile il parere negativo espresso, nella consultazione che deve precedere decisioni del genere, dall'allora presidente del Senato Spadolini, convinto che il Parlamento eletto meno di due anni prima fosse ancora in grado di esprimere una legittima maggioranza di governo. Si trattava, d'altronde, dello stesso Parlamento che aveva mandato Scalfaro al Quirinale. Alcuni mesi prima di quello scioglimento anticipato si era consumato il dramma politico del primo governo Amato. Che aveva concordato riservatamente con Scalfaro alcuni decreti legge per la cosiddetta uscita politica da Tangentopoli, ma se li era visti respingere alcune ore dopo le minacciose e pubbliche proteste della solita Procura di Milano. Dalle elezioni anticipate del 1994 uscì un risultato imprevisto da chi le aveva sollecitate e volute: la vittoria di Berlusconi, alleato al Nord con Bossi e al centro-sud con Fini. Si levarono appelli al Quirinale perché l'alieno non ricevesse l'incarico di presidente del Consiglio. Scalfaro se la cavò conferendoglielo insieme con una lettera di sostanziale indirizzo politico. Non si era mai vista prima una cosa del genere. E non appena la coalizione di governo cominciò a scricchiolare, tra l'insofferenza di Bossi e le inchieste giudiziarie, il capo dello Stato non se ne stette neutrale. Lo stesso Bossi raccontò poi del calore con il quale veniva accolto al Quirinale mentre rompeva con Berlusconi. Al quale furono negate, dopo l'apertura della crisi, le elezioni alla data ravvicinata ch'egli reclamava. Esse furono indette dopo più di un anno, quando gli oppositori di Berlusconi — guarda caso — si erano ben preparati, con la coalizione dell'Ulivo guidata da Prodi, a vincerle. Appartiene alla vicenda presidenziale di Scalfaro anche un tentativo fallito di coinvolgerlo in una brutta vicenda giudiziaria di fondi segreti, passati per le sue mani negli anni Ottanta, quando era stato ministro dell'Interno.