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La smetta di stare in cattedra

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Lo diciamo senza confondere, per carità, avvisi di garanzia, iscrizioni nei registri degli indagati, perquisizioni, provvedimenti di cosiddetta custodia cautelare e quant'altro per sentenze di condanna. Lo diciamo insomma senza passare dal fronte del garantismo a quello del giustizialismo. Non so se Di Pietro, quando era sostituto procuratore della Repubblica a Milano, usasse interrogare i suoi inquisiti come fece tanti anni fa un suo collega a Roma con me, finito anche agli arresti domiciliari per una settimana, sotto l'accusa di violazione addirittura del segreto di Stato. Avevo avuto l'imprudenza - pensate un po' - di pubblicare su La Nazione un documento sui collegamenti internazionali del terrorismo italiano predisposto sì dai servizi segreti per la Presidenza del Consiglio dei Ministri, ma da questa trasmesso alla commissione parlamentare d'indagini sul delitto Moro. Che era composta di sessanta fra deputati e senatori di ogni gruppo, di maggioranza e di opposizione. Comparso di fronte a quel magistrato dopo perquisizioni subite a casa e in redazione, mi sentii chiedere, oltre alle generalità di rito, come luogo e data di nascita,residenza e professione: «Ha subìto altre condanne?». Mi sembrò ovvio protestare chiedendo se mi dovessi considerare già condannato per il reato che mi veniva contestato, e dal quale sarei stato peraltro prosciolto dopo tre anni di indagini senza neppure essere rinviato a giudizio. Non l'avessi mai fatto. Mi sentii dare del provocatore e del presuntuoso. Ecco, quel magistrato era il prototipo del giustizialista in toga. Ripeto, non so se Di Pietro avesse le stesse abitudini da sostituto. Ma mi lasci dire, caro onorevole, senza offendersi e impugnare il computer per la solita querela, che prima da magistrato, poi da editorialista de La Stampa e di altri giornali, infine da politico Lei ha dato spesso, se non sempre, l'impressione di essere un giustizialista di fronte ad ogni notizia d'indagine giudiziaria, specie a carico di persone, diciamo così, non gradite. Non solo, ma Di Pietro ha dato anche l'impressione, per esempio nel salotto televisivo di Michele Santoro, affiancato dal solito Travaglio, di scambiare i garantisti per gente strana: o troppo ingenua, o troppo furba, se non addirittura complice d'imputati. Ora che le inchieste giudiziarie coinvolgono, oltre al figlio Cristiano, vari esponenti del suo partito, è augurabile che Di Pietro la smetta di stare in cattedra e di puntare l'indice accusatore contro avversari o anche alleati, dei quali è diventato concorrente elettorale proprio cavalcando la questione morale. È augurabile che anche lui si decida ad affrontare con realismo e ragionevolezza le questioni della giustizia, e del rapporto fra questa e la politica, come hanno cominciato a fare da qualche tempo alcuni esponenti della sinistra post-comunista, o come diavolo vuole essere chiamata. Se continuerà a scambiare il suo ruolo di politico con quello di magistrato d'accusa svolto in passato, anche scaricando brutalmente gli uomini del suo partito finiti sotto inchiesta, o convincendo il figlio Cristiano a dimettersi pure da consigliere provinciale o comunale in Molise, e non solo a sospendersi dal partito, potrà togliere al suo alleato Walter Veltroni un bel po' di voti. Lo ha già fatto nelle elezioni abruzzesi del mese scorso. Ma si condannerà ugualmente all'impotenza politica. La riforma della giustizia non è un capriccio o un'ossessione del presidente del Consiglio,come i giustizialisti sostengono da anni. È un'esigenza ormai avvertita da tutti. Essa comincia ad essere avvertita dagli stessi magistrati, specie da quelli - e sono i più numerosi - che sono stanchi di vedere la loro categoria identificata con le toghe più oltranziste. Continuare ad osteggiare la riforma è semplicemente un atto di irresponsabilità. Che inchioda il Paese ad una situazione insostenibile. È irresponsabile anche pensare di poter boicottare un serio intervento di natura necessariamente costituzionale alzando, ogni volta che le opposizioni ne hanno l'occasione, il prezzo di una convergenza con la maggioranza per arrivare ad una riforma largamente condivisa, come chiedono in buona fede i presidenti della Repubblica e delle Camere. Il gioco al rialzo è tanto furbesco quanto paralizzante. E finisce per assecondare il fondamentalismo sinora praticato e reclamato da Di Pietro.

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