Cerca
Cerca
Edicola digitale
+

Dopo i tripolini penso al "Silvietto"

default_image

  • a
  • a
  • a

Certo, dal 1890 anno in cui Pietro Gentilini fondò l'azienda, quante cose sono cambiate. Nel primo forno-pasticceria in via del Corso, ogni giorno si impastavano chili di pasticcini destinati a casa Savoia. Nacquero, proprio in onore della famiglia reale (eseguendo una strategia di puro marketing) i celebri biscotti «Vittorio», «Umberto», «Maria» e «Margherita», tutti ancora in commercio. Così come non sono cambiati neppure quelli che, strizzando l'occhio ai regimi di allora, vennero chiamati «Tripolini», esposti la prima volta in una fiera a Tripoli, quando questa era colonia italiana. «Tutte le mattine - ricorda Paolo Gentilini attuale presidente dell'azienda di famiglia - al cancello di villa Ada arrivava la ford di mio nonno con i biscotti caldi per la consegna a mano». Quand'è che le cose cominciarono a cambiare? «Alla fine della seconda guerra mondiale. Gli americani usavano il nostro stabilimento di via Novara, sulla Nomentana, per fare brioche per le truppe. Mio padre fu catturato dagli inglesi e rimase loro prigioniero in Africa per cinque anni». Da quanto tempo siete sulla via Tiburtina? «Dal 1958, e vedremo se rimanerci». In che senso? «Nel senso che tra poco cominceranno i lavori per il raddoppio della Tiburtina. Diventerà sempre più difficile arrivare fino a qui. Stiamo cercando un altro posto dove andare». Dica la verità, quanto vi ha aiutato chiamare i vostri biscotti con i nomi dei reali? «Beh, non più di tanto. La moglie di mio nonno era piemontese e forse anche questo ha influito nella scelta dei nomi». Suo nonno era fascista? «Non credo». Dai prodotti che faceva non si direbbe. Vedi i biscotti "brasil". «I "brasil" sono neri perché fatti con il cacao. E comunque, mio nonno era una persona che viveva il suo tempo, e l'epoca era fascista». Perché non avete mai pubblicizzato la vostra azienda al di là delle mura romane? «All'inizio è stata una scelta ben precisa. Mio padre non voleva espandersi troppo temendo di non essere più azienda familiare. Adesso invece stiamo lavorando per diventare più grandi. Per esempio, abbiamo cominciato a farci pubblicità in tv». Senta, da una parte esiste il modello "famiglia del Mulino Bianco". Esiste anche un modello "famiglia Gentilini"? «Mi piacerebbe avere il fatturato di Mulino Bianco». Il vostro a quanto ammonta? «Più o meno a 20 milioni di euro, con un totale di 80 dipendenti». Vendete ancora i biscotti spezzati in confezioni economiche? «Sì, li vendiamo nel nostro spaccio». Secondo lei quanto siete stati penalizzati dal fatto di essere a Roma, storicamente città dei palazzi della politica? «Per noi essere a Roma è elemento di fierezza e i romani sono attenti ai prodotti di qualità. E poi guardi, da qualche anno a questa parte qui c'è un'imprenditoria molto effervescente». Quindi non pensa avrebbe avuto più successo in un'altra città, magari del nord? «Forse sì, non lo so. Le aziende che oggi a Roma non funzionano sono proprio quelle legate alla Pubblica amministrazione. E questo è tutto dire». Quanto Roma, nel settore dolciario, può considerarsi competitiva con città come Verona o Torino? «In questa città non esiste un distretto dolciario, come in altre città, e il nostro non è un prodotto tipico». Le dispiace? «Diciamo che Gentilini è il biscotto di Roma, ma che Roma non è famosa per i biscotti». I vostri biscotti sono tra i più cari sul mercato. Perché? «Dipende dagli ingredienti che si utilizzano: noi per esempio usiamo burro autentico e non grassi idrogenati». Quindi in questo momento di crisi economica vendete di meno? «Per ora no. Siamo la fetta fortunata del mercato globale». Che rapporto ha la Gentilini con il Campidoglio? «Sempre molto buono e di grande considerazione». Le piace Gianni Alemanno come sindaco? «Come imprenditore mi sembra che sia ancora troppo presto per valutare il lavoro di questo sindaco. Come cittadino mi sembra che le cose a Roma vadano meglio. E comunque dopo tanti anni con un certo tipo di giunta, un cambiamento non può che fare bene a questa città». Quindi Veltroni non le è piaciuto? «Negli ultimi mesi Veltroni ha abbandonato la città. Per carità, bravo nell'immagine e sulla comunicazione. Ma in quanto a fatti operativi... E poi quando in un paese il governo è di centrodestra, che nella sua capitale ci sia anche la destra secondo me aiuta». Che voto darebbe ad Alemanno sindaco? «Non riesco a dare un voto. Positivo il fatto che sia giovane e che abbia molta voglia di fare. L'unico timore che ho e che alcune frange di An, suo partito di provenienza, possano prendere il sopravvento». Frange di An? «Sì, è solo una mia sensazione. Intendo qualche esponente di quartiere». Cosa le piacerebbe chiedere al sindaco? «Come romano di risolvere i problemi della città. Come imprenditore mi piacerebbe aprire un negozio in centro, magari in via del Corso dove mio nonno aprì la prima volta. Chissà, magari Alemanno può darmi una mano». Dopo gli Umberto, le Marie e i Vittorio, non sarà il caso di aggiornare i biscotti con qualche nome della politica attuale? (Ride) - «Perché no. Potremmo fare per esempio il "Silvietto"». Come sarebbe? «Piccolo e tondo». E poi? «Il "Walterino", sicuramente più spigoloso. Il "Dipietrino", un biscotto pesante. E infine il "Casinista", tutto colorato». Roma è città della politica ma anche dello sport. Perché non fare un "Tottino" o un "Chinaglino"? «E infatti tra un paio di mesi usciremo con gli "aquilotti" e i "lupacchiotti", in onore della Roma e della Lazio».

Dai blog