Sofri ci ripensa Meglio tardi che mai
Parole che se non mettono fine alla vicenda di cui è stato attore protagonista, certamente contribuiscono a renderla meno opaca nei risvolti culturali e politici più che in quelli giudiziari: «Di nessun atto terroristico degli anni '70 mi sento corresponsabile. Dell'omicidio Calabresi sì, per aver detto o scritto, o per aver lasciato che si dicesse e si scrivesse, "Calabresi sarai suicidato"». Sofri ha aspettato trentasette anni, da quel tragico mattino del 17 maggio 1972 quando, sotto la sua abitazione, il commissario venne assassinato, per dichiararsi moralmente responsabile. Naturalmente nega, coerentemente con il lungo percorso processuale, qualsiasi coinvolgimento materiale nella morte di Calabresi per la quale ha scontato nove anni in carcere e adesso è detenuto nel proprio domicilio per motivi di salute. Tuttavia quel che oggi dice non allevia la pena che si porta dentro anche se, in qualche modo, contribuisce a liberarlo da un tormento. Avrebbe potuto tacere ancora, ma non lo ha fatto. Speriamo che la sua ammissione sia d'esempio a quanti condivisero con lui la responsabilità morale di quell'omicidio e in quasi quarant'anni non hanno mai trovato il modo per giustificarsi e scusarsi di parole e gesti che non soltanto offendono ancora la memoria della vittima di una campagna d'odio senza precedenti e i suoi familiari, ma l'intera società italiana che è rimasta per decenni attonita davanti all'idea diventata opinione comune, secondo la quale, come si leggeva su "Lotta continua", dove scrivevano numerosi giornalisti che poi ci siamo ritrovati come editorialisti e direttori delle testate borghesi e capitalistiche, che Calabresi era "il nemico del proletariato". "Nemico" era anche per quei cento intellettuali della sinistra presentabile che firmarono un "documento" contro di lui ospitato dall'"Espresso" che nel numero in edicola pubblica un misurato articolo di un vecchio marxista come Wlodek Goldkorn quale presentazione del libro di Sofri. Di quegli intellettuali, molti dei quali ancora in servizio permanente effettivo nei giornali, nelle case editrici e nelle istituzioni culturali, oltre che in politica, non abbiamo mai letto le parole che Sofri scrive ora. Non le ha dette, per esempio, il Nobel Dario Fo che alla vicenda Pinelli, con annesse accuse a Calabresi, dedicò una pièce teatrale mai ritrattata. E "nemico", manco a dirlo", Calabresi era del "Manifesto", fucina di tante "teste d'uovo" comuniste oggi liberali più di Malagodi, sul quale si poteva leggere, tra tante oscenità politiche che l'assassinio del commissario "aveva una sola logica: bloccare il processo di chiarificazione sulla questione delle bombe di piazza Fontana, e anzi rilanciare a più alto livello la caccia alle streghe contro la sinistra". Ma fu il quotidiano "Lotta continua" a superare se stesso in nefandezza definendo l'omicidio "un atto in cui gli sfruttati riconoscono la propria volontà di giustizia". Chi scrisse questa frase infame, chi la pubblicò, chi la condivise? Adele Cambria, direttore del giornale, ebbe il buon gusto ed il coraggio di dimettersi. Non si comportarono allo stesso modo altri rivoluzionari che ci saremmo ritrovati poi come predicatori di una non precisata pacificazione. Fu quella cultura "giustificazionista" dell'assassinio politico, della lotta armata, dell'assalto allo Stato che ha dominato in Italia per anni, ben oltre le vicende sanguinose a cui offrì alibi ed appoggi morali. Rispetto a essa non molti passi in avanti sono stati fatti. Si tende a rimuovere, infatti, mentre bisognerebbe ricordare, non per vendicare memorie sepolte, quanto per fare ammenda di un passato lugubre alla cui "legittimazione" gli intellettuali hanno contribuito in maniera decisiva immaginando l'assalto ad un Palazzo d'Inverno che esisteva soltanto nelle loro malate fantasie. Quando si ricordano Calabresi e le vicende che da quell'omicidio scaturirono, non bisognerebbe dimenticare che il nostro Paese è stato a lungo ammalato di cattive ideologie le quali, come fiori malsani, hanno contaminato la vita civile e corrotto molte giovani generazioni. Qualcuno s'illude di poter cancellare le follie del passato, ma quando vediamo dispiegarsi la decadenza sotto i nostri occhi non possiamo non pensare che essa è anche frutto di una immoralità intellettuale che si è esercitata disprezzando la vita. Che le parole di Sofri, trentasette anni dopo, aprano, dunque, una discussione non sulla sua vicenda personale, ma sulle responsabilità collettive di un'intellighentia responsabile almeno quanto il capo di Lotta continua. Sul piano morale, s'intende.