Cerca
Cerca
Edicola digitale
+

Follini: "Basta Di Pietro. L'alleato naturale del Pd è l'Udc"

Marco Follini

  • a
  • a
  • a

In realtà Marco Follini, un passato da segretario centrista e da vicepremier del governo Berlusconi, stava solo aprendo una strada. «Pd e Udc - spiega - hanno molte affinità. Se ci si lavora credo che lo sbocco verso un'alleanza sia piuttosto naturale. Certo, se non ci liberiamo prima dell'errore fatto, penso sia molto difficile cercare di raccogliere consensi, soprattutto nell'area moderata». L'«errore» è l'alleanza con Antonio Di Pietro? «Sì, ed è un errore che dobbiamo correggere». L'impressione, però, è che la maggioranza del Pd, la stessa che ha bocciato la sua mozione «anti-Idv» all'ultima direzione nazionale, non la pensi così. «Non mi illudevo di essere promosso. Chiedo però ai vertici del mio partito di riflettere su quella bocciatura». Francamente mi sembra l'ultimo dei vostri problemi. «I problemi di un partito sono sempre a 360°. Non ce n'è uno che oscura gli altri. Personalmente credo che oggi ci sia un tema aperto su tutto lo scacchiere politico». Qual è? «È il rapporto tra centro e periferia. Quello che sta succedendo a Napoli e non solo lì ci insegna che non sempre nei partiti la periferia è virtù e il centro vizio. Forse, se ci liberassimo da questa retorica e la smettessimo di pensare che le "intromissioni" romane sono una forma di colonialismo, saremmo più vicini a risolvere i problemi». In effetti, la sua candidatura nasce proprio come una «intromissione» romana. «Quel tentativo, purtroppo, si è scontrato con una geometria di poteri locali in cui vige una visione monocratica. Se presidenzializziamo regioni, comuni e province, questo rende più semplice la scelta degli elettori, ma più difficile qualsiasi correzione politica». Cos'è? Un avviso a chi, nel Pd, spinge per il presidenzialismo alla francese? «Dico solo che se vogliamo uscire dallo scontro Iervolino-Bassolino contro il resto del mondo, dobbiamo prendere atto che questo è un sistema rigido in cui, se c'è capacità di traino dei vertici istituzionali si va avanti, altrimenti ci si impantana». E quindi occorre nominare un commissario? «La vicenda di Napoli è dentro la storia politica italiana. Non a caso Veltroni ha nominato un commissario piemontese che, nel regno dei Borboni, qualche precedente ce l'ha. Ma io voglio trarre da questa vicenda un insegnamento per il futuro». Sarebbe? «Il brodo di coltura in cui viviamo è fatto da chi grida viva il federalismo e, contemporaneamente, viva il presidenzialismo. Io penso che occorra rivedere questi assiomi perché non mi sembra che stiano producendo meraviglie». Scusi, ma questa suona come una critica al leaderismo di Veltroni? «Ho sempre detto che una leadership solitaria non è risolutiva. I partiti sono squadre, se si verticalizza troppo si rischia il fallimento». L'impressione, però, è che la squadra che sta guidando il Pd abbia ormai fatto il suo tempo. «La divisione del partito tra innovatori e conservatori non mi convince. Anzitutto perché non funziona la radicalità dello schema. Non tutto il vecchio, infatti, è da cestinare e non tutto il nuovo è da portare sull'altare. Certo, se questo è il discrimine, io, Veltroni, D'Alema, Marini e molti altri, siamo già al di là della linea». Eppure Veltroni ha fatto del «nuovismo» la sua bandiera. «Non rinnego quella parola d'ordine, ma se diventa una litania non porta alcun vantaggio». Quindi lei non pensa che occorrano nuove leve? «Ovvio che sì, anche se ancora prima, molto prima, vengono le idee. Dobbiamo dire cosa vogliamo fare e come possiamo renderci utili. Contemporaneamente dobbiamo evitare che i gruppi dirigenti periferici si chiudano nella logica dei "cacicchi", assumendoci la responsabilità di far saltare quei tappi che impediscono il ricambio. Ben sapendo che, in fondo a questa strada, non c'è la pioggia dei commissariamenti, ma nuovi gruppi dirigenti». A proposito di commissari, cosa pensa del «caso Pescara»? «Di fronte a ragioni di salute mi fermo rispettosamente. Certo, non nascondo che queste ragioni dovrebbero portare più verso le dimissioni che ad un passaggio di mano». Secondo lei, nei prossimi mesi, potrà riaprirsi un canale di dialogo tra Pd e governo? «Non siamo nella striscia di Gaza e nessuno è condannato ad essere per sempre il nemico dell'altro. Ci si parla a cavallo del confine e noi lo abbiamo fatto poco. Certo, le difficoltà della maggioranza non possono essere un alibi per evitare che il processo si compia». Difficoltà come quelle su Alitalia? «Su Alitalia mi limito a dire che il fatto che nella residenza privata del presidente del Consiglio si incontrino i vertici della compagnia di bandiera ed esponenti politici della maggioranza mi sembra una prassi istituzionale molto poco appropriata. Il Berlusconi dei suoi giorni migliori avrebbe detto che c'è qualcosa che ricorda il dirigismo sovietico. Mi auguro non diventi una prassi». Per la verità il primo a raccogliere attorno al tavolo di casa propria il segretario della Cgil e il presidente di Cai è stato il segretario del suo partito. «Touché. Anche se una robusta differenza c'è: allora si trattava di salvare Alitalia dal baratro. Oggi si decide cosa deve fare la compagnia di bandiera nel proprio futuro». Il 2009 sarà la fine della leadership di Veltroni? «Io non discuto la leadership, ma il progetto. Credo che noi tutti dovremo fare un esame di coscienza che non abbiamo fatto in questi mesi. E poi serve una svolta». Che potrebbe iniziare con le dimissioni di Iervolino e Bassolino? «Mi sembra che le dimissioni fossero all'ordine del giorno qualche mese fa. Oggi sono superate dalla cronaca».

Dai blog