Arnaldo Forlani ricorda
E che Marsilio sta mettendo in distribuzione per la collana Gli specchi della memoria. Discreto è anche l'approccio che l'ultimo vero segretario della Dc, seguito solo da chi decise - Mino Martinazzoli - di liquidarla nel 1993, ha voluto avere con l'obbligo giustamente avvertito di raccontare la sua lunga e intensa esperienza politica, intrecciatasi con gli avvenimenti più esaltanti ma anche più tragici della storia della Repubblica italiana. Anziché ricorrere alla solita biografia autoreferenziale, egli ha voluto rispondere alle domande di due interlocutori sicuramente amici, e pazienti, ma non compiacenti, come vedremo: Sandro Fontana e Nicola Guiso, già direttore -l'uno- e capo dei servizi parlamentari -l'altro- de Il Popolo, lo storico quotidiano ufficiale della Dc. In più di un passaggio i due intervistatori sono redarguiti. Per esempio, quando contestano la crescita del debito pubblico negli anni Settanta e Ottanta collegandola alla «ricerca del consenso». «Era una linea - obietta Forlani - che, a parte il consenso intermittente e alterno di sindacati e imprenditori, veniva condivisa dalla stessa Banca d'Italia, che riteneva i rischi finanziari neutralizzati in virtù della ripresa: ciò che in qualche misura è avvenuto». E che venne apprezzato persino dalla rigorosissima premier inglese Thatcher, che in una conversazione con lui nel 1989 «ammirava il nostro sistema economico per la sua flessibilità criticando quello troppo rigido del suo paese». «Parlare oggi di una discontinuità virtuosa, per la quale solo in anni recenti saremmo riusciti quasi per miracolo a entrare in Europa è un modo un po' enfatico di autocelebrarsi in contraddizione con il passato», dice Forlani sfidando la pubblicistica corrente. Invitato a parlare delle «tortuose giornate del maggio 1992», quando si ritirò dalla corsa al Quirinale dopo due sole votazioni, egli contesta l'aggettivo «tortuoso» e rivendica la linearità della sua condotta. Racconta, in particolare, di avere accettato la candidatura, pur consapevole della improbabilità di un'elezione negata già in passato ad altri segretari della Dc, solo per senso di responsabilità verso il suo partito e gli alleati. Che gli avevano chiesto con forza la sua disponibilità dopo che il Psi aveva scartato il nome di Andreotti, da lui stesso proposto. Ma perché rinunciò dopo aver mancato per soli 29 voti l'elezione, recuperandone peraltro dieci tra la prima e la seconda votazione? «Sarebbe stata - risponde - un'elezione strettamente maggioritaria, considerata troppo di parte per un ruolo arbitrale e di garanzia». Sull'elezione poi di Oscar Luigi Scalfaro, preferito a Giovanni Spadolini come «soluzione istituzionale», essendo l'uno presidente della Camera e l'altro presidente del Senato, Forlani fa capire che egli avrebbe probabilmente scelto il secondo se fosse dipeso solo da lui, che gli aveva già fatto da staffetta a Palazzo Chigi dieci anni prima. A preferire Scalfaro furono i comunisti, «e poi anche i socialisti». I comunisti, anche se Forlani non lo dice, perché al suo posto avrebbero mandato Giorgio Napolitano al vertice di Montecitorio. I socialisti perché, conoscendone la provenienza dalla magistratura ed avendolo apprezzato come ministro dell'Interno nei governi di Craxi e del vice presidente Forlani, pensavano ch'egli sapesse e volesse contenere l'esondazione giudiziaria in arrivo con la vicenda di Tangentopoli. Ma Scalfaro poi non la contenne per niente, cominciando col negare a Craxi, perché ne temeva il coinvolgimento nelle indagini giudiziarie, l'incarico di presidente del Consiglio al quale era stato designato dalla maggioranza appena confermata nelle urne. Dei risultati elettorali del 1992 Forlani ancora oggi è fiero, non condividendo la liquidazione che, sotto la spinta giudiziaria, si fece sia di quella maggioranza sia del suo partito. Solo «otto anni prima, alle europee», ricorda Forlani, «il Partito Comunista ci aveva superato e ora era stato doppiato dalla Dc». Il Pds-ex Pci infatti uscì dalle urne del 1992 con il 16,1 per cento dei voti, tallonato da un Psi al 13,6 per cento, contro il 30 per cento dello scudo crociato. Anche alla luce di quei risultati l'offensiva giudiziaria di quegli anni e l'uso fattane dalla sinistra e dalla grande stampa apparvero e appaiono ancora arbitrari a Forlani. Che ne ha subìto personalmente gli effetti con una condanna per i finanziamenti ricevuti irregolarmente dal suo partito, al pari di tutti gli altri, per quanto statutariamente gestiti non da lui ma dal segretario amministrativo. Di quella condanna Forlani ricorda con particolare e significativa cura il passaggio finale, in Cassazione, avvenuto «con singolare rapidità» e preceduto dalla «sostituzione del presidente e di alcuni giudici». «La relazione - dice Forlani con impietosa memoria - era affidata a un giudice che con Francesco Misiani aveva viaggiato nella Cina popolare» avendo «la sfacciataggine», poi raccontata in un libro dallo stesso Misiani con spirito autocritico, «di esaltare» i processi e le condanne negli stadi perché «lì si realizzava la partecipazione del popolo all'amministrazione della giustizia». Bella giustizia, sembra dire Forlani: la loro, nella Cina di Mao, e la nostra, di rito ambrosiano ma rapidamente diffusasi in tutta Italia.