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Pd sotto accusa, Veltroni attacca i pm

Veltroni

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Il governo cade e, dopo un anno di transizione, si torna al voto. Walter Veltroni è il direttore de l'Unità e ha già elaborato la filosofia di vita che lo accompagnerà negli anni a venire: «Penso che i giudici debbano fare il loro lavoro tranquillamente e che nessuno gli debba indicare quello che devono fare». Filosofia che, nell'ottobre del 1995, si arricchisce di nuovi elementi: «Non useremo questioni giudiziarie per ragioni politiche. Abbiamo sempre tenuto separate la questione politica da quella giudiziaria. La magistratura deve poter lavorare e i politici si devono comportare con coscienza». Negli anni la posizione si è aggiornata, le parole si sono adattate alla situazione, ma Veltroni non ha mai cambiato idea: politica e giustizia devono viaggiare su binari separati. Così, quando nel 1996, Antonio Di Pietro finisce nel mirino dei pm, l'allora vicepresidente del Consiglio commenta: «Quando la magistratura indaga bisogna rispettare quello che fa. Questo valeva nel '92, '93, '94, '95 e deve valere anche oggi e anche l'anno prossimo». E infatti, nel 1997, il leit motive è sempre lo stesso. Le indagini coinvolgono Cesare Previti, ma per il "buon Walter" «la separazione tra la lotta politica e l'intervento della magistratura è una linea di civiltà». «La politica non deve commentare, esprimere giudizi, né deve fare apprezzamenti su ciò che fa la magistratura» dirà qualche mese più tardi parlando della richiesta di rinvio a giudizio per Berlusconi. Ma se i magistrati sbagliano? Anche in quel caso Veltroni non ha nulla da eccepire sul loro operato. Anno 1999, Giulio Andreotti viene assolto al processo sull'omicidio Pecorelli, un giornalista gli fa notare che ora i pm che hanno accusato l'ex premier verranno attaccati, la risposta è pronta: «I magistrati hanno ritenuto di dover aprire un procedimento sulla base degli elementi che avevano. Ora c'è una sentenza chiara e non credo che bisognaaprire polemiche». Via così. Anno dopo anno, avviso di garanzia dopo avviso di garanzia, richiesta di rinvio a giudizio dopo richiesta di rinvio a giudizio. Sempre dalla parte della magistratura, che deve fare il proprio dovere senza interferenze della politica. E se un esponente del centrosinistra come Antonio Bassolino nel 2007 finisce alla gogna per la vicenda rifiuti, nessun problema: Veltroni è certo che «saprà dimostrare la correttezza dei suoi comportamenti» (tesi curiosa visto che, normalmente, è l'accusa a dover provare la colpevolezza di qualcuno). Poi, però, arriva il 15 dicembre 2008. E la musica cambia. Quel giorno, con il centrodestra che festeggia la vittoria alle regionali in Abruzzo, il sindaco di Pescara Luciano D'Alfonso finisce agli arresti domiciliari. L'accusa è di concussione. Per il Pd è un vero è proprio terremoto. Il primo cittadino, infatti, è anche il segretario regionale del partito. Un esponente di spicco su cui punta Walter (tanto che, proprio da Pescara, il segretario ha cominciato il suo tour elettorale). D'Alfonso viene interrogato e tre giorni fa, alla vigilia di Natale, il gip decide di revocare la misura cautelare. Attenzione però, nell'ordinanza le accuse dei confronti del sindaco non decadono, anzi, come scrive il giudice Luca De Ninis, «in termini di gravità indiziaria il quadro accusatorio rimane nel suo complesso confermato (e anzi sotto taluni aspetti rafforzato)». Piuttosto il gip sottolinea che la sua scelta dipende dal fatto che il sindaco, dimissionario, non può in alcun modo inquinare le prove. Ora uno, per coerenza, si aspetta la solita frase veltroniana, un invito ai magistrati ad andare avanti, magari una solidarietà di massima nei confronti di D'Alfonso. Invece il segretario che fa? Attacca. Senza mezzi termini. «Quello che è avvenuto a Pescara è gravissimo - tuona -. Esprimo a D'Alfonso che torna pienamente libero la mia soddisfazione. Ma la vicenda ha dentro di sé gravi implicazioni che meritano una riflessione più compiuta che ci riserviamo di fare nelle prossime ore».  E infatti, a stretto giro di posta, ecco arrivare la dichiarazione del ministro ombra della Giustizia Lanfranco Tenaglia: «Forse sarebbe stata necessaria più prudenza nell'emettere i provvedimenti di custodia cautelare, anche perché ci sono state conseguenze gravi, come le dimissioni del sindaco di Pescara. Quando prendono questo tipo di decisioni, i magistrati devono agire con prudenza e rispetto delle procedure». La domanda, a questo punto, nasce spontanea: cosa è successo? Perché, ad esempio, quando a luglio di quest'anno venne arrestato il governatore abruzzese Ottaviano Del Turco nessuno si indignò? Perché allora Veltroni si limitò ad augurarsi che sulla vicenda fosse fatta «piena luce nel più breve tempo possibile»? Qual è la differenza? La magistratura non ha forse il diritto di fare il proprio lavoro senza interferenze? Forse, come diceva Huxley, anche Veltroni pensa che «le sole persone perfettamente coerenti sono i morti». E ha voluto far vedere a tutti che è ancora vivo.

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