Ma Walter Veltroni, ci è, o ci fa? La domanda non è ...
Dunque, la riforma della giustizia non è tema che coinvolge il più delicato tra i rapporti tra cittadino e Stato, tra individuo e collettività, tema principe ed esclusivo di esercizio della sovranità popolare delegata. No, è tema da «triangolazione» tra le parti «sociali» del processo, anzi, tra gli ordini (esclusi gli imputati, naturalmente): le associazioni degli avvocati e quella dei magistrati. Una concezione dello Stato che non si sa se sia più vicina -e non scherziamo, purtroppo- a quella della Camera delle Corporazioni o a al diritto della società sovietica. Un'abberrazione perfettamente organica con le premesse di un Veltroni che decide di ignorare -e quindi di polemizzare- non solo e non tanto con Luciano Violante (che propone coraggiose riforme «di sistema»), ma addirittura con Giorgio Napolitano che tre giorni fa ha auspicato una riforma -certo non da elaborare con l'Anm e le Camere penali, ma tra maggioranza e opposizione, in Parlamento- indicandone i capisaldi principali. Ma Veltroni non è d'accordo con Napolitano, non intende seguire i suoi consigli, per lui la riforma della giustizia è essenzialmente problema di «lentezza della giustizia», l'unico in cui entra nel merito. Veltroni fa finta di non sapere che ormai siamo alla guerra per bande tra magistrati, che la loro credibilità presso l'opinione pubblica è tra i più bassi, che il loro protagonismo politico e mediatico è una patologia mortale. Nulla di tutto questo. L'abbraccio con Di Pietro, con la cultura di destra classica che ispira il suo giustizialismo -come sosteneva Giovanni Pellegrino autorevole esponente dei Ds- per Vetroni rappresenta ben più che un alleanza, una tattica elettorale e parlamentare. Emerge in questa relazione di Veltroni -peraltro scialba, mediocre, tutta tesa a congelare ogni tema in una sintesi da bilancino- una condivisione piena della cultura politica -per così dire- di Di Pietro. Condivisione, peraltro fisicamente percepibile nella scelta di Veltroni affidare la rappresentanza del Pd, in Parlamento e nei rapporti col ministro della Giustizia Alfano non più a un mix di avvocati e magistrati -come da tradizione- ma solo ed esclusivamente a dei pubblici ministeri: Lanfranco Tenaglia, Felice Casson e Donatella Ferranti. È vero dunque che il Pd di Veltroni non è più il «partito delle toghe». E diventato ormai il partito dei Pm.