La Russa, il ministro "fissato" con la sicurezza dei soldati
Ufficiale di complemento in gioventù, militante del Msi, avvocato e mefistofelico esponente del nuovo corso di successo della destra italiana. Quella che ha sofferto e patito nel secolo scorso per esprimere le proprio idee e che oggi trionfa nei sondaggi e nelle elezioni. La Russa è un ministro dai ritmi martellanti. Ma attenzione mai prima delle 10,30 del mattino. Della vita militare, lui fante, ama tutto, tranne quella tromba squillante all'alzabandiera quando sorge il sole. Pigrizia che in qualche occasione, vedi ministro della Cina Popolare, ha creato un problemino di cerimoniale. Ma non è che sia pigro, il suo bioritmo è diesel. Inizia lento poi però non si ferma più fino a sera, anzi a notte. Abitudine milanese e ancor di più romana. Un politico che conosce il mondo delle discoteche, dei giovani e dei loro sballi. Ma lui, l'uomo con il pizzetto che Berlusconi rimproverò persino durante il giuramento al Quirinale: «Ignazio quella barba». E lui schernendosi rispose: «È fina fina». Arrivato a Palazzo Baracchini, sede del ministero della Difesa, non ha cambiato nulla degli arredi rispetto ai suoi predecessori. Tranne per quella fotografia della squadra del cuore, l'Inter. E visto che siamo nella Roma di Totti e Baptista è bene che quell'immagine dei nerazzurri sia nel blindato ufficio al primo piano. Quella è una delle cose a cui tiene di più e guai il lunedì parlare di calcio. Diviene un fiume in piena e tralascia anche di guardare i faldoni che la segretaria gli fa trovare sulla scrivania. Poco prima del suo arrivo, nelle stanze paludate di via XX settembre, andava alla grande l'imitazione di Fiorello. Così quando La Russa si è materializzato, in molti le prime volte sono inciampati in un «Non scherzare che se ti sente il ministro». Ma dall'altro capo del telefono c'era il ministro in carne ossa e pizzetto. E sì perchè lui è così. Quando lavora non si ferma di fronte ai protocolli. Non se ne sta chiuso nell'ufficio. Esce e va personalmente a chiedere cose a segretari e impiegati, militari e civili che siano. Qualche volta appare in maniche di camicia, sempre con la sua andatura un po' ciondolante che quando passa in rassegna le truppe sembra la caricatura di John Waine. Con lo stesso passo non è raro che scenda di corsa i quarantadue gradini dal primo piano di Palazzo Baracchini e arrivare fino al bar d'angolo dove entra chiassosamente consumando un frugale pasto tra avventori divertiti e un po' perplessi a scrutare le facce della scorta che a fatica si muove nell'angusto locale. Abitudini buone e cattive. Si perde il telefonino: lo lascia in auto, non ricorda a chi della scorta o dello staff lo ha consegnato durante le cerimonie poi si guarda intorno tra l'irritato e il disperato come un bimbo che ha perso il gioco preferito. Il suo sguardo perplesso può fulminarti. La Russa si perde nei suoi mille pensieri e a volte non segue il discorso così può sbottare quasi inviperito ma il rientro nella calma è pari alla quiete dopo la tempesta. La felicità però riempie la sua vita da ministro quando i soldati gli chiedono di farsi fotografare con lui. E ancor di più quando scolaresche, o la folla che partecipa a una qualche parata militare, rompe gli argini per poterlo abbracciare e posare con lui. Famoso quasi più per il «digiamolo» coniato da Fiorello, La Russa non teme di mettersi in gioco. È arrivato a fare il doppiatore di cartoon. E quale serie se non i Simpson e lui a dare voce a Garth il proprietario di una industria di dolci di Springfield odiato da tutti perché spaccia caramelle di zucchero ai bambini facendoli diventare tutti obesi. Le sue uscite non sempre vengono comprese da tutti come è accaduto negli States quando in visita al cimitero degli eroi di Arlington il suo accompagnatore gli chiese se volesse visitare anche la parte dedicata ai caduti «nativi», leggi pellirosse, e Ignazio La Russa sentenziò «My name is Geronimo», che è poi il nome di La Russa jr. Del resto le storie di Alce Nero fanno parte del background di un ex giovane di destra degli anni settanta. E Ignazio non è uno che dimentica. E la cosa lo mette in rotta di collisione con il presidente della Camera e suo presidente, Gianfranco Fini. Uno scontro in un giorno nefasto da sempre nella «storia»: l'8 settembre. Il suo discorso alla presenza del Capo dello Stato Giorgio Napolitano ha il sapore del revisionismo storico. Su di lui salve di proiettili anche di fuoco amico. Ignazio La Russa è però avvocato di vaglia e trova l'accordo e, tempo qualche giorno, ricompone anche con Gianfranco. La battuta pronta, il ridere chiassoso non deve trarre in inganno. Quando lavora, lavora. E lui crede al gioco di squadra. Ne sanno qualcosa i suoi sottosegretari, Giuseppe Cossiga e Guido Crosetto, impegnati a tenere insieme le file dei molti problemi che la gestione di un mistero chiave come la Difesa può avere. La Russa ha dato subito la sua impronta. Passo svelto e difesa a testuggine della squadra. Sempre. Soprattutto «fare tutto il possibile per dare visibilità e importanza ai nostri ragazzi», come il ministro è solito chiamare i soldati. E dal primo momento Ignazio il Mefistofelico ultras interista si è mosso in questi termini. Costretto a incrociare la spada con il collega Tremonti e i suoi tagli. «Non cederemo di un centimetro sulla sicurezza per i nostri soldati». Così più volte è arrivato a minacciare di ritirare i militari dalle missioni all'estero. «Se non ci sono soldi, le missioni non si fanno. I nostri ragazzi devono avere mezzi sicuri». Il suo viso si illumina quando si trova in mezzo a divise, baschi amaranto e piume di gallo cedrone. L'orgoglio da ministro ma soprattutto di quel giovane che a 18 anni auspicava un Esercito di professionisti come è quello di oggi. Ed eccolo pochi giorni dopo essersi insediato godersi la parata del 2 giugno gongolante nella Tribuna autorità. Eccolo in giacca mimetica «desert» a Herat, Farah, Kabul laddove c'è la guerra. Laggiù in Afghanistan, lui dimentico per un giorno della fede interista e tornato ministro tricolore regala braccialetti biancorossieverdi ai generali del contingente Isaf. Braccialetto divenuto d'ordinanza per tutto il suo staff, scorta compresa. Ignazio La Russa ha preso con serietà il suo ruolo ma è troppo spesso costretto a improvvisare perché quel gioco di squadra che è la sua arma vincente gli fa perdere la conoscenza di alcuni dettagli. Così perde le staffe e insulta i giornalisti. Capita con le donne che però lo affascinano e di cui è galante affabulatore. È la veemenza della passione politica e di quell'ardore da Re Artù per i suoi cavalieri. Arriva infatti a giustificarsi, mentre va in onda la pubblicità su La7, con i suoi interlocutori: «Non ho fatto in tempo a leggere tutte le carte». Ma la buona fede è salva. E la truppa contenta. Il ministro sta in prima linea con loro. E spinto dal suo ardore verso la visibilità delle truppe e la sensibilità da «homo sicilianus» per la femmina eccolo scivolare sull'«affaire Grambassi». Sposa le richieste del tribuno Santoro e impone ai carabinieri di restare fedeli al loro motto. Poi, marcia indietro e visita di cortesia a Canossa, viale Romania sede del Comando generale dei Carabinieri. Ma come un triumviro romano continua a guidare le sue truppe a dispetto degli altri. Fa arrabbiare Maroni con il suo schierare i parà in Campania prima che l'ordine arrivi dal Viminale. Ma tant'è. Maroni se ne è fatto una ragione a tal punto che ha firmato l'impiego dell'Esercito nelle città italiane per altri sei mesi. E insieme hanno fatto combutta per arginare quel terribile Brunetta che voleva cancellare la «malattia di servizio» anche per militari e poliziotti. I due si sono concessi un volo tattico su un caccia dell'Aeronautica militare. La Russa in tuta arancione è salito sul jet sorridente e ne è sceso con lo stesso sguardo allucinato di chi ha provato un'emozione unica ma non irripetibile. Gli è piaciuta molto e non è detto che non voglia ritornare tra le nuvole a un Mach e mezzo.