Il giallo della telefonata che spaventò Villari
Non so quanto il senatore Riccardo Villari, espulso con rito sommario dal gruppo del Partito Democratico, potrà o vorrà resistere nella carica di presidente della Commissione parlamentare di Vigilanza sulla Rai. Dalla quale è stato invitato a dimettersi anche dai presidenti delle Camere e del Consiglio, generosamente intervenuti in soccorso di Walter Veltroni, che ha bisogno della sostituzione di Villari con Sergio Zavoli come un assetato ha bisogno di acqua. Egli infatti rischia, come vedremo, di perdere in questa vicenda la sua già traballante segreteria di partito, essendosi troppo a lungo ostinato nella difesa della candidatura del dipietrista Leoluca Orlando. Che era stata troppo contestata dalla maggioranza sin dall'inizio, e poco condivisa sotto traccia anche nel Pd, per potere approdare all'elezione ad una carica di "garanzia" come quella finita poi per protesta tra i piedi di Villari,votato dai commissari del centrodestra e da alcuni dissidenti dell'opposizione. Non so, ripeto, quanto potrà o vorrà resistere il presidente della Commissione di Vigilanza. So però, per esserne stato testimone, che un passaggio probabilmente chiave della sua vicenda risale a mezzogiorno e mezzo di martedì scorso, 18 novembre. Lo avevo avvicinato davanti alla sala di lettura dei giornali, al Senato, per chiedergli se l'udienza di Veltroni e di altri dirigenti del Pd al Quirinale, annunciata per quella mattina, avesse per caso sbloccato anche la richiesta da lui avanzata, ma rifiutata, di essere ricevuto dal capo dello Stato. Avevo appena trasmesso al giornale un articolo su quella diversità di trattamento e volevo cautelarmi da novità che potessero in qualche modo spiazzarmi. Villari aveva cominciato a rispondermi con una smorfia di sorpresa. Alle mie insistenze si decise a rispondere: "No. Non è cambiato nulla. Il rifiuto, che non ho capito, non è stato rimosso. Attendo anch'io di capire qualcosa". A quel punto squillò il telefonino del senatore. Che lesse sul display il numero o il nome di chi chiamava e, decidendo di rispondere, si allontanò in fretta da me con un cenno di scusa, voltandomi la schiena. Rimase al telefono per tre o quattro minuti, più sentendo che parlando,a voce peraltro bassissima. Finita la conversazione,anziché tornare da me s'infilò nella sala lettura, in quel momento vuota. Mi trattenni sulla soglia per qualche minuto, pensando che egli avesse bisogno di rimanere appartato per qualche telefonata ancora da ricevere o da fare. Mi decisi quindi a raggiungerlo di nuovo e ripresi il discorso dove lo avevamo interrotto. Ma lui aveva perso ogni voglia di parlare. Era letteralmente stravolto. Il suo sguardo era assente. Colsi anche un segno di tremore nella mano destra. L'altra stringeva il telefonino. Ne rimasi tanto impressionato che rinunciai ad insistere. Dopo qualche ora, quando già le agenzie erano piene di dichiarazioni sull'esito dell'udienza di Veltroni al Quirinale e sul decollo della candidatura di Zavoli a presidente della vigilanza, quel volto terreo, quello sguardo assente e quella mano tremante di Villari mi tornarono sinistramente alla mente: sinistramente perché il senatore aveva nel frattempo annunciato di avere ricevuto "pressioni, minacce e violenze" di ogni tipo. Pagherei chissà che cosa per sapere provenienza e contenuto di quella telefonata di martedì. Che m'impedì peraltro di chiedere a Villari un parere anche sulla clamorosa rivelazione fatta proprio quella mattina, sul giornale "il Riformista", da Marco Follini a proposito della nascita della controversa alleanza tra Veltroni e Antonio Di Pietro. Essa potrebbe finire per costare assai cara al segretario del Pd se si arrivasse nel partito ad una resa dei conti,specie nel caso in cui dovesse naufragare del tutto il tentativo di rimediare al pasticcio della vigilanza con l'elezione bipartisan di Zavoli. Veltroni ha sempre sostenuto di avere deciso in primavera con un solo voto o parere contrario,al vertice del partito, l'alleanza con Di Pietro, preferito ai poveri socialisti di Enrico Boselli,che avevano reclamato l'apparentamento con un Pd finalmente liberatosi dalla sinistra massimalista. Sentite invece come andarono le cose,secondo la testimonianza appunto di Follini: "L'alleanza, chiamiamola così, venne stipulata in un freddo pomeriggio pre-elettorale. Veltroni riunì il "caminetto" e chiese il nostro parere. Conservo nella memoria una sorta di verbale di quella riunione. Gli dicemmo tutti -tranne uno, più dubbioso- che eravamo contrari". Capito? Tutti contrari meno uno,quindi,non tutti d'accordo meno uno,come ha raccontato Veltroni quando i rapporti con Di Pietro hanno cominciato a creargli problemi e lui si è barcamenato tra rotture verbali e inseguimenti dell'ingombrante alleato sulla strada del radicalismo. Che non è quello garantista di Marco Pannella,naturalmente, ma quello comunemente definito giustizialista o populista. Un radicalismo che ha rischiato di approdare alla vigilanza sulla Rai con Orlando. Del quale molti ricordano ancora con giustificato fastidio le polemiche con il povero Giovanni Falcone,sospettato di voler proteggere Andreotti dai processi di mafia,o le pesanti allusioni, fatte in un salotto televisivo di Michele Santoro, a carico di un maresciallo dei carabinieri che si sarebbe poi ucciso. Lo sventurato aveva osato collaborare con i tentativi di permettere al boss mafioso Badalamenti,detenuto negli Stati Uniti,di testimoniare in Italia a favore di Andreotti,accusato addirittura di avere chiesto o comunque ottenuto dalla mafia l'assassinio di Mino Pecorelli.