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Il caso Villari

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Perché è andato? Perché doveva contribuire alla rielezione di Beppe Scalera, deputato del Pdl, diniano di stretta osservanza, democristiano come lui di vecchia data. I due in realtà duellano (per quanto i vecchi dc possano duellare) da venti anni, da quando uno, Riccardino - lo chiamano così - era il pony del cavallo di razza Enzo Scotti e l'altro scalpitava nelle fila di Amintore Fanfani. Si facevano guerra in consiglio comunale (dove la loro spina nel fianco era un certo Elio Vito, oggi ministro) e nei congressi, e un minuto dopo s'abbracciavano e andavano a braccetto. Walter Veltroni ancora non ha compreso fino in fondo in che rete è finito. Una rete di vecchi dc messi in disparte e che ora si prendono la rivincita. Una rete le cui fila sono ancora nelle mani di quelli che «tengono 'a capa», hanno cervello. Ciriaco De Mita, certo. Ma anche Clemente Mastella. E soprattutto Enzo Scotti. Più defilato Paolo Pomicino. Più staccato Franco Marini. Democristiani. Che, cinti d'assedio, hanno scelto di sparpagliarsi tra Pd e Pdl. Si parlano. Si vedono. E hanno ripreso a inciuciare, a farsi da sponda, ad aiutarsi per riemergere schiacciati dall'immobilismo veltroniano. Sulla Vigilanza Rai, insomma, si sta giocando una partita che va oltre la semplice commissione bicamerale. Quel che è sicuro è che le parole «Villari» e «dimissioni» sono incompatibili. È ancora presidente del Napoli Club Montecitorio (club la cui attività è ignota ai più) sebbene sia ormai senatore. Il neopresidente dell'organismo di San Macuto è un poltronomane. La prima volta provò ad entrare in Parlamento con il Pdl, nel '96, ma non ce la fece; se n'è andato e c'ha riprovato con l'Ulivo. Ogni volta che ha cambiato partito ha chiesto in quello nuovo una nuova carica. Avvenne quando era Dc, nel Cdu, poi del Ccd, poi dell'Udr e dell'Udeur. Scotti aveva negli anni Ottanta due pupilli: Villari e Andrea Losco. Nel '98 fecero il ribaltone alla Regione Campania, defenestrando il presidente di destra Rastrelli. E Losco si portò Villari a Palazzo come capo della segreteria occulta, manteneva i rapporti con gli imprenditori e s'occupava del commissario ai rifiuti. Poi le strade dei due si sono separate. Villari abbandona Mastella e se ne va con la Margherita. Tutti credono sia un rutelliano di ferro ma il suo protettore a Roma è Dario Franceschini, l'attuale vice di Veltroni, il quale oggi - guarda caso - non ha chiesto pubblicamente le dimissioni dalla Vigilanza. E fu proprio Franceschini a sponsorizzarlo invano alla segretaria regionale della Margherita nel 2003 contro De Mita. Poi arriva il Pd, l'era in cui non esiste nemmeno una minoranza interna, in cui la teodem Binetti parla e viene sconfessata. L'era dell'abbraccio fatale con Di Pietro e Cgil. Liti, rotture. Tutto messo da parte. Oggi Riccardino è la bandiera di quel mondo. Nessun democristiano chiede che lasci. Enzo Carra, che smentisce di aver votato per Villari, gli consiglia: «A questo punto potrebbe contribuire a chiarire la situazione. Visto che non si è dimesso subito, spero che abbia un progetto che lo porti a insistere con i presidenti delle Camere perché si arrivi a una soluzione condivisa». Ed Enrico Letta allarga il fronte: «Mi sembra un gran pasticcio, va ridiscusso tutto. Dispiace questo muro contro muro». E lui, Riccardino, divorziato con un figlio, casa a Posillipo e villa a Capri, ama gli yacht color oro, va avanti. Ha chiesto di vedere Napolitano il quale non ha escluso l'incontro; s'è solo limitato a precisare di «non avere titolo per pronunciarsi sulle scelte del presidente eletto dalla Commissione parlamentare di vigilanza radio-tv». Ovvero: è una questione interna corporis al Parlamento se si debba dimettere o meno, non può intervenire il Quirinale. Villari vedrà poi Fini e Schifani e così avrà incardinato istituzionalmente la sua carica; le dimissioni saranno così più improbabili. Ha un solo amico giornalista: il direttore del Mattino Mario Orfeo, che la Carfagna vorrebbe direttore del Tg1. In serata avverte: «Mi dimetterò solo con accordo su un altro nome». Veltroni tace. Già è andato oltre la logica affermando che una regolare elezione all'interno di un organo parlamentare sia da «regime». Adesso deve adeguarsi alle regole democratiche. Anzi, democristiane.

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