Alla Vigilanza Rai eletto un ex Pdl Un altro colpo per Veltroni

Al secondo giro invece il Pdl va compatto sul senatore democratico Riccardo Villari, forte dei suoi 21 voti a cui si aggiungono due dell'opposizione. Chi? Uno dei due principali indiziati è Enzo Carra, ex dc di lungo corso oggi Pd. Lui glissa ma non nasconde la sua critica: «Al nostro interno già da qualche settimana si era aperto un dibattito sulla necessità o meno di svolgere questa operazione sapendo che Orlando non sarebbe comunque stato eletto. Abbiamo deciso che il nostro ruolo era quello dei kamikaze e ci siamo andati a schiantare sull'obiettivo». Comunque sia, Villari è presidente. Per il Pdl è una vecchia conoscenza visto che la prima volta che si candidò alla Camera, nel '96, lo fece proprio con la casacca del centrodestra: accadde nel collegio Napoli-Chiaia, Villari venne sconfitto da Vincenzo Maria Siniscalchi, l'avvocato di Maradona, poi deputato Ds e oggi al Csm. Una sconfitta di misura, finì 47,4 a 49,2%. Poi Villari, che allora era in quota Cdu di Buttiglione, se ne andò con il Ppi e quindi nel centrosinistra. Sino ad allora, nella prima parte degli anni Novanta, era stato una quarta fina della Dc di fede scottiana, con il crollo per le inchieste di tangentopoli si ritrova prima capogruppo e quindi assessore alla Cultura per appena tre mesi. Ma è un'altra storia. Ora Veltroni schiuma rabbia. Prima aveva chiesto, d'accordo con Casini, al Pdl di evitare «gesti provocatori» e a Di Pietro di proporre una rosa e non un nome solo come Orlando. In entrambi i casi ha preso porte in faccia. Alle tre del pomeriggio convoca una conferenza stampa e annuncia: «Mi ha telefonato ora il senatore Villari, per comunicarmi che andrà dal presidente della Camera e dal presidente del Senato a rassegnare le sue dimissioni». Ma non è così perché nello stesso momento Villari sta parlando a porte chiuse nella Commissione e afferma sostsnazialmente che vi sono stati dei richiami anche pochi giorni fa da parte del presidente della Repubblica, oltre che da Fini e Schifani, sulla vacatio della guida dela Vigilanza. Dunque è preludio della salita al Colle, gli uffici - opportunamente sollecitati - gli mettono a disposizione un'auto. Il punto è un nodo fondamentale perché Villari non è tenuto a salire al Quirinale, ma se il Capo dello Stato lo ricevesse, suonerebbe come una sorta di legittimazione. E dopo se il Pd lo costringesse alle dimissioni compierebbe uno sgarbo a Napolitano. Infatti all'uscita da San Macuto Villari avverte: «Il mio percorso istituzionale per decidere o meno se mantenere la presidenza della Vigilanza Rai partirà da un incontro con il presidente della Repubblica e poi con i presidenti di Camera e Senato, per poi passare ad un confronto con il mio gruppo parlamentare». E puntualizza: «Comunque non assumerò decisioni in contrasto con la linea del mio partito». Pannella lo invita a non dimettersi. Veltroni strilla: «Quello che è accaduto è una cosa inimmaginabile e mai vista prima nella storia delle istituzioni parlamentari. È una cosa che avviene nei regimi e non nelle democrazie». S'appella a Fini e Schifani, spera che qualcuno lo ascolti. Va alla Camera per il voto sulla Finanziaria e in Transatlantico gli chiedono se Villari si dimetterà in giornata e lui sicuro risponde: «Penso di sì». A sera, il senatore del Pd è ancora in carica. Presidente del Napoli Club Montecitorio (venti euro per iscriversi anche se non svolge alcuna attività e non rilascia nemmeno le tessere d'adesione come gli altri club) sebbene sia senatore, Villari va avanti. Quello che è chiaro è che nel Pd si è aperto un nuovo conflitto interno: non solo dentro gli ex Ds (Veltroni-D'Alema) ma anche tra ex Margherita e diessini. Nel Pdl si gongola. L'operazione, di chiaro stampo finiano (Bocchino e Villari villeggiano a Capri), è andata in porto anche a discapito di Berlusconi. Che ancora qualche giorno fa si chioedeva: «Perché Latorre no?».