Obama spinto dalla paura
Da una parte c'è il vecchio John McCain, figlio di un ammiraglio, temprato da cinque anni di prigionia in Vietnam e più di venti in Senato e tipico rappresentante dell'America patriottica e individualista. Dall'altra il giovane Barack Obama, figlio di un keniota e di una studentessa del Kansas, alla ribalta nazionale da appena quattro anni, primo afro-americano a tentare la scalata alla Casa Bianca con un programma vagamente socialdemocratico e l'appoggio delle nuove generazioni. La diffusa voglia di cambiamento dopo la presidenza Bush favorisce naturalmente i democratici, che infatti sono certi di trionfare nelle elezioni per il Congresso ed il Senato e sono favoriti dai sondaggi anche per le presidenziali. Ma il margine del vantaggio di Obama, che varia quasi ogni giorno, non è sufficiente per metterlo al sicuro da una svolta dell'ultima ora a favore del candidato repubblicano di quel 14 per cento di elettori che si proclamano ancora indecisi e che, nel segreto dell'urna, potrebbero essere influenzati dal fattore razziale (e magari dallo scandalo dell'ultima ora della zia immigrante clandestina). Come sempre, la contesa sarà decisa da alcuni grandi Stati tradizionalmente in bilico tra i due schieramenti, come l'Ohio, la Pennsylvania, la Florida e la Virginia. Chiunque vinca, si troverà di fronte a due compiti immani: da un lato, fronteggiare la crisi economica incombente che, se male gestita, potrebbe sfociare in una lunga depressione; dall'altra, migliorare l'immagine dell'America nel mondo estraendola dalla palude irachena, vincendo la guerra contro i Talebani, impedendo all'Iran di diventare una potenza nucleare e rilanciando i rapporti transatlantici. Ogni iniziativa dovrà essere presa con un occhio alla cassa, perché gli Stati Uniti, che otto anni fa godevano di un robusto avanzo di bilancio, si avviano ad avere del 2009 un deficit di mille miliardi di dollari. L'ultima parte della campagna è stata incentrata quasi esclusivamente sui problemi economici, ma nessuno dei due candidati ha offerto ricette miracolose. Obama è apparso più riflessivo e preparato (o forse meglio consigliato), anche se un po' troppo statalista, e si è avvantaggiato del clima di paura che si sta diffondendo nel Paese. Per quanto abbia cercato di smarcarsi dall'amministrazione Bush, McCain rischia di pagare pegno per gli errori commessi dal suo partito al potere dal 2000 e per il sospetto che non abbia la forza per cambiarlo. Entrambi promettono una gestione della crisi bipartisan, cioè di chiamare al governo gli uomini più preparati, indipendentemente dal loro schieramento: Obama, tuttavia, è oggi in grado di attingere a un pool di esperti più vasto, e avrebbe il vantaggio di una robusta maggioranza in entrambi i rami del Parlamento. Sulla politica estera, le differenze tra i due candidati si sono attenuate nel corso della campagna elettorale. All'inizio sembrava che Obama volesse ritirarsi dall'Iraq secondo un calendario preciso, entro sedici mesi dal suo insediamento, mentre McCain era disposto a rimanerci, se necessario, «anche cento anni». Ora entrambi sono orientati a regolarsi in base alla situazione sul terreno, e sono d'accordo che a una riduzione delle truppe a Baghdad deve seguire un potenziamento del contingente in Afghanistan. Eguale è anche la determinazione dei due candidati nell'impedire all'Iran di costruire la bomba, in prima battuta con la diplomazia, ma senza escludere la soluzione militare. In Europa, dove tutti sembrano tifare per Obama, c'è la convinzione che egli sia meno aggressivo di McCain e più disponibile a una gestione multipolare dei problemi, ma a causa della sua scarsissima esperienza internazionale è difficile fare previsioni. Molto dipenderà dalla scelta del Segretario di Stato, per cui non c'è ancora un favorito. In ogni caso, l'interesse dell'America non consente svolte sensazionali e molti potrebbero essere delusi. Il principale vantaggio di Obama sul rivale è di presentarsi come innovatore in un momento in cui di innovazione c'è molto bisogno, e di avere un carisma non comune. Ma, come scrive l'Economist, il carisma non basta né a piegare gli ayatollah né a risolvere i problemi di bilancio. Gli americani che si sono accesi di entusiasmo per lui, compresi diversi autorevoli esponenti repubblicani, lo apprezzano più per quello che rappresenta che per quello che promette di fare e contano più sul suo raziocinio che sulla sua preparazione. Ma rimane il fatto che, nonostante le doti che ha messo in mostra durante la campagna elettorale, specie nel duello con Hillary Clinton per l'investitura democratica, la sua elezione comporterebbe - sotto molti rispetti - un salto nel buio.