Filippo Caleri f.caleri@iltempo.it Sotto la cenere il ...
Così da una parte l'attuale responsabile di via XX settembre si è fatto paladino dell'economia sociale, che prevede che le regole del mercato siano temperate dall'intervento della politica, dall'altro, Draghi non ha mai nascosto la fiducia piena nei meccanismi di autoregolamentazione degli operatori econonomici e dei benefici della globalizzazione. Due visioni del mondo opposte in una guerra sotterranea. La cui conclusione vede favorito adesso Tremonti aiutato dagli eventi dammatici che stanno scuotendo le borse mondiali in questi giorni. Finora, infatti, Draghi era riuscito a tener distante l'esecutivo dalle sue stanze, sia per il lavoro di modernizzazione nel mondo bancario italiano avviato dopo la gestione dell'ex Antonio Fazio sia grazie alla sponda a lui offerta dalla grande finanza internazionale. Draghi non ha mai fatto mistero. Già direttore generale del Tesoro di vari ministri della Prima Repubblica, il Governatore è stimato negli ambienti «che contano», e non ha fatto scalpore che, lasciato il ministero, sia stato ingaggiato dalla potente banca d'affari americana Goldman Sachs, la stessa che arruolò anche Romano Prodi e Mario Monti e che ha avuto tra i suoi «advisor» anche Gianni Letta. Una banca d'affari sinonimo di mondializzazione della finanza che fino a qualche mese fa entrava, quasi senza nemmeno bussare, nelle stanze dei governi nazionali. E che oggi, al contrario, fatica a tenere in nero i suoi bilanci sotto i colpi di una crisi senza precedenti del sistema finanziario. Difficile, dunque, fino a qualche tempo fa contestare il potere taumaturgico della libertà di movimento dei capitali e della finanza derivata. Anche per Tremonti che ha, invece, sempre mal digerito le tesi mondialiste del Governatore. Agli osservatori attenti parvero rivolti proprio a lui, nel corso dell'assemblea dell'Abi, gli strali del ministro, contro gli «esponenti del globalismo, del mondialismo e del deficismo». Oggi i rapporti di forza si sono revesciati e il decreto del governo che assegna al Tesoro la regia degli interventi sulle banche a rischio di collasso con iniezione di capitale toglie prerogative e spazi finora considerate, per legge non scritta, di assoluta pertinenza di via Nazionale. Il terremoto delle borse consegna, insomma, all'architettura del potere italiano un nuovo scenario. E cioè il primato della politica sull'organo tecnico e cioè sulla Banca d'Italia. Per lungo tempo non è stato così. Basta ritornare al periodo in cui al timone di Palazzo Koch c'era Guido Carli e il ministro del Tesoro era il democristiano Colombo. Allora le strategie erano elaborate dal primo e messe in pratica dal secondo. Non fu l'unico caso. Il pendolo tra i due centri in tema di potere decisionale c'è sempre stato, insomma. E se a rigor di logica la subordinazione di Bankitalia al Tesoro è un naturale corollario della sovranità popolare, nella realtà, le forti personalità che si sono alternate a Palazzo Koch, hanno spesso trasferito il luogo delle grandi scelte a Via Nazionale. Finora Draghi, con il suo fare formale, ma dotato di eguale competenza tecnica, allievo di Federico Caffè, e introdotto nei circoli dell'aristocrazia toscana grazie alla moglie, ha rappresentato il perfetto «civil servant ed è stato appoggiato in modo bipartisan. Ma i tempi cambiano e quando alla commemorazione dell'economista e presidente della Repubblica, Luigi Einaudi, Draghi è tornato a battere sul tasto della «libertà economica», molti hanno intravisto una smorfia di disappunto nel viso di Tremonti a cui il concetto piace poco essendo la sua personale dottrina molto più tentata dal neo-protezionismo, soprattutto contro lo strapotere cinese, e da tentazioni colbertiane e statalistiche. Un'eredità della sua scuola di pensiero cresciuta accanto alle idee del ministro socialista Franco Reviglio. La crisi finanziaria, però, ha ora abbassato il potere di interdizione di cui Draghi aveva finora goduto. E che aveva mantenuto con una felpata opera di assecondamento dei voleri dell'esecutivo. Sua la firma sul piano di riorganizzazione della struttura che taglia e accorpa sedi e che si inserisce nella strategia di riduzione del settore pubblico perseguita dal governo Berlusconi. E sua, ancora, la firma sotto la circolare che in ossequio alla lotta ai fannulloni da parte del ministro Renato Brunetta estende anche ai dipendenti di Palazzo Koch le più severe regole sulla malattia. Il pieno rispetto delle direttive governative non è bastato a Tremonti. Ben altre questioni non sono state digerite dal ministro del Tesoro. Come il fatto che il Governatore abbia da tempo messo nel mirino, con le regole di "governance" e con l'elenco dei requisiti di "onorabilità" dei banchieri Cesare Geronzi, ormai uomo forte di Mediobanca, e soprattutto vero erede di Cuccia nella gestione dei dossier sulle grandi aziende d'Italia. Crisi a parte insomma tra le cause dell'insofferenza ci sarebbe anche la partita sugli assetti di controllo degli snodi del potere economico italiano come Piazzetta Cuccia e le Generali. Ora chissà se si verificherà la nemesi. Draghi, che fu salutato dal Paese e dalla politica, come il salvatore della Banca d'Italia guidata da Antonio Fazio rischia di trovarsi molto più solo di quanto avrebbe potuto mai immaginare.