C'è qualcosa che non torna nel dibattito che si svolge in ...
La questione è citata nel programma elettorale di ambedue le coalizioni; il Governo dice di essere pronto a procedere e l'opposizione pronta a discuterne; si dichiarano d'accordo le regioni del Nord come quelle del Sud. Il fatto che, in tanto accordo, l'unica cosa di cui non si dispone siano i testi sui quali sta lavorando il governo rafforza ulteriormente i sospetti. Poiché il federalismo fiscale significa essenzialmente una redistribuzione delle risorse rispetto alla situazione attuale, un consenso così vasto può voler dire o che qualcuno ha sbagliato i conti o che il vero dibattito comincerà solo quando i numeri saranno resi noti. Le questioni sono essenzialmente due e molto diverse fra loro. La prima riguarda la redistribuzione delle risorse fra il centro e la periferia. Una riforma in senso federalistico può consistere nell'individuare alcuni cespiti fiscali di cui le Regioni possano disporre direttamente per finanziare le attività di loro competenza, liberandole dall'attuale dipendenza dai trasferimenti dello Stato. La questione, però, riguarda lo Stato: come farà fronte l'amministrazione centrale alla riduzione dei suoi introiti fiscali nel momento nel quale una maggiore quota di essi viene assegnata alle Regioni? Rinuncerà a svolgere alcune funzioni? Trasferirà una parte del personale alle Regioni? Oppure manterrà immutata la spesa rispetto al periodo precedente la riforma finanziandola con nuove imposte o con un aumento del debito? Se il federalismo fiscale è l'occasione per una riorganizzazione seria della amministrazione centrale, esso può essere benvenuto. Ma bisogna essere certi che non sia invece un modo per un aumento della pressione fiscale o per una ripresa della corsa del debito pubblico. Il secondo problema riguarda la distribuzione delle risorse fra le Regioni. Oggi la parte del gettito fiscale che lo stato non usa per l'amministrazione centrale viene attribuita alle Regioni, in parte in rapporto alla loro popolazione, in parte in funzione perequativa, a sostegno cioè delle Regioni più deboli. Come inciderà il federalismo su questa distribuzione delle risorse? Se i fondi utilizzati in funzione perequativa rimarranno quantitativamente immutati, per il Nord il federalismo non sarà servito a nulla; se si ridurranno, il Mezzogiorno registrerà un aggravamento. Naturalmente, anche in questo caso si può immaginare che la riforma federalistica si accompagni a un aumento di efficienza. Questo potrebbe voler dire, ad esempio, che potendo contare su minori trasferimenti a loro favore, le Regioni del mezzogiorno sarebbero indotte a darsi da fare ed a rendere più produttive ed efficienti le attività economiche. Non lo si può escludere, ma, se la scarsità di risorse è un incentivo ad aguzzare l'ingegno, non si può neppure escludere che l'aumento delle risorse disponibili nelle Regioni del Nord dia luogo a una minore necessità di aguzzare il loro ingegno e dunque a una minore efficienza. Anche qui il rischio evidente che si corre è che, riducendo l'ammontare delle risorse per la perequazione fra le Regioni, le zone più povere del Paese chiedano e alla fine possano ottenere un sostegno centrale, per finanziare il quale l'amministrazione dello stato debba ricorrere a un prelievo fiscale aggiuntivo o a un maggiore indebitamento. Questi sono i problemi aperti. Non risulta che il governo abbia compiuto degli studi approfonditi su tutti questi aspetti. Per ora lo sforzo sembra essere quello di evitare che si apra un conflitto politico. Ma conviene procedere con molta cautela prima di far partire il treno della legislazione. Perché se esso si mette in moto senza avere delle risposte precise ai quesiti aperti, si rischia soltanto di accendere la spirale dell'aumento della pressione fiscale o peggio quella del debito pubblico dalle quali faticosamente l'Italia cerca da molti anni di allontanarsi.