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Fabrizio dell'Orefice [email protected] Un ...

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Gli ultimi eventi hanno tutti una concatenazione. Una successione logica e politica. Che nell'ambiente finiano considerano ormai come un assedio al leader. Alemanno che, con il suo considerare il fascismo non un male assoluto, «scardina» la rete di relazioni, di contatti, di rapporti e soprattutto di credibilità che Fini ha costruito all'estero e non solo con il mondo ebraico. Ma saranno affari di Alemanno, che infatti s'è già pentito delle sue parole visto che comincia a comprendere che i romani lo giudicano per le buche e la sporcizia in città più che per le sue dissertazioni storiche. Lo sa bene Umberto Croppi, l'assessore alla Cultura, l'unico fuoriclasse della giunta, che ha evitato di intervenire nel surreale dibattito suscitando le ire delle stesso sindaco. Ha dovuto riparare con un'intervista in cui giurava fedeltà. Non solo Alemanno. Prendiamo Ignazio La Russa, il reggente del partito. L'uomo che non vuole passare alla storia come il «commissario liquidatore della destra». Su di lui piovono i rimproveri, le polemiche, gli insulti della base che ha paura di sparire, di essere cancellata, di essere archiviata nella soffitta del Pdl, una Forza Italia allargata. E così il ministro della Difesa ha pensato bene di dire qualcosa di destra. Di mandare un segnale: esistiamo, non è che - perché facciamo i ministri - ci siamo dimenticati la nostra identità. Di lì, l'onore reso alla Nembo di Salò, tra l'altro citando meno della metà dei concetti espressi dodici anni fa da Luciano Violante. Solo che Violante parlò alla Camera nel suo discorso di insediamento come numero uno di Montecitorio; La Russa ha scelto forse il luogo e il momento meno opportuno (visto dal Quirinale) come le cerimonie per l'8 settembre. Napolitano non l'ha presa bene. Fini malissimo, perché con fatica s'era costruito un feeling particolare con il presidente della Repubblica, s'era guadagnato un ruolo da mediatore istituzionale tra Palazzo Chigi e Quirinale tanto che qualcuno l'aveva già ribattezzato l'«uomo del Colle». Ma a iniziare questa danza era stato Maurizio Gasparri, che a luglio aveva a stento digerito e in malomodo la bocciatura urbi et orbi di Fini in persona alla sua proposta di boicottare la cerimonia inaugurale delle Olimpiadi. Eh no, cornuti e mazziati no. Da qual giorno Gasparri ha comiciato a mettere in discussione la leadership stessa di Fini, usando formule ambigue del tipo «ora il leader è Berlusconi». E siccome il personaggio è uno che non demorde, tutti i santi giorni dell'estate non ha perso occasione di ripetere «quanto è bello e quanto è bravo Berlusconi». Il 21 agosto sulla giustizia. Il 22 sul Pdl. Il 28 su Alitalia. Il 29 pure. Il 30 sull'accordo con la Libia. Ciliegina sulla torta ha preso a cannonate Giuliano Amato scelto alla guida della commissione Attali per Roma. Fini ha una sorta di ammirazione per Amato da quando tutt'e due nel 2002, ogni lunedì, prendevano assieme l'aereo per Bruxelles per partecipare ai lavori della convenzione europea. Berlusconi ci sguazza, tanto che per motivare il suo «no» al voto agli immigrati caro a Fini, ha poggiato sulla contrarietà manifestata dal capogruppo del Pdl al Senato, ovvero Gasparri, ovvero uno dei big di via della Scrofa. Un modo per dire all'amico Gianfranco: attento, anche nel tuo partito sono contrari. Insomma, è saltata la tregua nella destra. Una tregua firmata nel luglio nel 2007, subito dopo l'uscita di Storace. Fini, per blindare il partito, decise di formare un vertice ristretto, mettendo da parte gli antichi dissapori nati per le svolte proprio sul «fascismo male assoluto», sul voto agli immigrati, sulla fecondazione assistita. Costituì un ufficio politico tanto ristretto da lasciare fuori Adolfo Urso e anche Mario Landolfi, ma che tenne dentro i capicorrente. Tra i quali l'unico che s'è riservato un atteggiamento più distaccato è stato Altero Matteoli, anche se il ministro delle Infrastrutture si rende perfettamente conto del senso di smarrimento che attraversa il partito tanto da aver voluto a fine luglio a Roma un cenone con tutti i suoi fedelissimi. Come si è rotta questa tregua? I primi scricchioliì si sono avvertiti con la pace fatta con Berlusconi dopo un inverno di guerra nucleare. Un'intesa pagata a caro prezzo tanto che An oggi si ritrova 83 deputati nel Pdl, mentre nel 2001 ne ottenne 101. Ma non è una rivolta d'odio. È una rivolta d'amore. Di bambini che si sentono abbandonati dal papà, il quale ora è diventato presidente della Camera e, da uomo di Stato, interpreta il ruolo con la necessaria impassibilità. Nello scorso governo Berlusconi se un ministro era in difficoltà chiedeva aiuto all'allora vicepremier che a sua volta alzava la voce in consiglio dei ministri e Tremonti sborsava. Stavolta non è così. Fini non c'è, ognuno gioca per sè. Alemanno s'è costruito un asse con Tremonti (e aveva provato a sabotare l'accordo 70 posti a FI e 30 a An chiedendo la reintroduzione delle preferenze), La Russa con Verdini. Ma non basta. I colonnelli di An avvertono la loro irrilevanza politica. Già dalla formazione del governo, visto che la Lega ha fatto la voce grossa e ha ottenuto il ministero dell'Interno, dove Maroni ha monopolizzato tutto e l'uomo di An, Mantovano, prova a rincorrere. Stesso discorso all'Economia dove il buon sottosegretario Giorgetti non riesce nemmeno a vedere le carte. Per non parlare dei ministri titolari. Il dossier Alitalia è gestito dal ministero dell'Economia e Matteoli è tenuto ai margini. La Russa ha subito i tagli di Tremonti. Alla Meloni hanno dato mezzo ministero, le Politiche Giovanili: lo Sport è andato a Rocco Crimi di Forza Italia. E tutti i ministri più in vista, da Brunetta alla Gelmini, sono «azzurri». I capetti di An si stanno ancora mordendo le mani perché avevano chiesto il Welfare (richiesta che Alemanno, dopo essere stato eletto sindaco, aveva giudicato «irrinunciabile») e invece accusano Fini di aver ceduto pur di far spazio al fedelissimo Andrea Ronchi. E infatti tra i maggiorenti di via della Scrofa gira una storiella che vorrebbe Berlusconi chiedere lumi in consiglio del ministri su una direttiva comunitaria e il titolare delle politiche europee avrebbe risposto balbettando. C'è anche chi ne fa un'imitazione degna di un comico professionista. Di fronte a questo andazzo Fini ha risposto a modo suo. Ieri per tutto il giorno la sua auto non s'è mai vista alla Camera al solito posto di via dell'Impresa. Era ad Ansedonia. Il grande capo, con aristocratico distacco, se n'è andato al mare a sbollire. Perché infuriato è infuriato sul serio. Imbufalito. Incazzato. Non resterà con le mani in mano e alla prima occasione alzerà la voce. E la prima occasione è la festa dei giovani di An, Atreju, sabato mattina.

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