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Pensioni, verso l'aumento dell'età

Sacconi

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Sono passate tredici estati da quando l'allora presidente del Consiglio Lamberto Dini e il Ministro del lavoro Tiziano Treu compirono il famoso strappo introducendo il metodo contributivo che mise in equilibrio, in prospettiva, il sistema previdenziale ma conservò, a favore degli occupati più anziani, una fase di transizione - da tutti i principali osservatori ritenuta troppo lunga - tanto che siamo ancora inchiodati a fare i conti con essa. In questo stralcio di fine ferie, dopo la sentenza dell'Ocse che pone il Paese in cima alla graduatoria mondiale per l'alto costo del lavoro (mentre le retribuzioni al netto sono basse), non possiamo non porci il problema di un'agenda governativa che si ponga il problema di riforme strutturali tra cui anche quella delle pensioni dato che l'aliquota contributiva del 33% per il lavoro dipendente è tra le più elevate del mondo. Come dice il Libro Verde del Ministro Sacconi la spesa pensionistica è pari a circa due terzi dell'intera spesa sociale, mentre quest'ultima è in linea con la media europea. Pertanto senza un riequilibrio delle risorse destinate alla voce vecchiaia, non sarà possibile far fronte alle emergenze attese nel campo della sanità e al soddisfacimento di nuovi bisogni come la tutela dei cittadini non autosufficienti, propria di una società moderna e che invecchia. In tale contesto, purtroppo, il precedente Governo, sotto il torchio delle componenti più radicali della maggioranza di centro sinistra, alleate con i sindacati, ha ulteriormente appesantito la situazione dei conti pensionistici caricando il sistema di oneri aggiuntivi per dieci miliardi di euro per il prossimo decennio. Il Ministro Sacconi, pur criticando la precedente controriforma, non ha voluto giustamente rimettere in discussione quelle norme infelici salvo che per quanto riguarda la disciplina dei lavori usuranti e la revisione dei coefficienti di trasformazione che restano così i soli argomenti iscritti nell'agenda, già troppo carica, d'autunno. La legislatura è comunque lunga e il Libro Verde lascia intendere che le dinamiche demografiche imporranno nel medio periodo un'attenta riconsiderazione dell'allungamento dell'età pensionabile. In proposito nei giorni scorsi si è discusso se sia necessario elevare l'età di vecchia delle donne. Taluni esperti della materia finiscono per vedere l'albero e per ignorare la foresta. Per loro le donne hanno una attesa di vita più lunga di quella degli uomini e quindi devono andare in pensione più tardi. Per un politico accorto, invece, il processo va invertito e occorre tenere conto delle condizioni di contesto in cui agiscono le persone in carne ed ossa. E quindi anche le donne con la loro esigenza di conciliare lavoro e famiglia. Le lavoratrici hanno pagato un prezzo importante alla riforma Dini: l'età di vecchiaia delle donne è passata dai 55 ai 60 anni e a questo onere si sono aggiunti l'incremento del requisito contributivo da 15 a 20 anni e il conteggio del reddito del marito per aver diritto all'integrazione al minimo. Una rivendicazione dei diritti della donna con osservazioni di carattere politico sulla condizione femminile, naturalmente si occupa responsabilmente anche della situazione previdenziale, costola fondamentale del loro progetto e percorso di vita. Le riforme fatte fino ad ora consentono di non compiere scelte affrettate. Sicuramente non si deve pensare solo alla questione dell'età pensionabile delle donne, ma si deve provvedere inderogabilmente ( senza ulteriori temporaggiamenti dovuti ad una inesorabile e perdurante arretratezza culturale e a risorse che non si vogliono trovare mai) ad aumentare il tasso di occupazione femminile anche con provvedimenti specifici, investendo in politiche attive del lavoro e soprattutto riformando il pacchetto degli ammortizzatori sociali. Sono presenti nel dibattito proposte di pensionamento flessibile in cui periodi di maternità, lavoro di cura e periodi di formazione valgano doppio in termini di contribuzione figurativa fino ad un massimo di due anni. È molto più serio tutelare la specificità delle donne al momento del bisogno piuttosto che lo sconto risarcitorio a fine carriera. E comunque è necessario fare di più e riequilibrare con maggiore incisività le norme di riallineamento dell'età al femminile, andando oltre le proposte di carattere pensionistico. Significa operare per una riforma del diritto del lavoro che contempli una maggiore uniformità tra le diverse tipologie di rapporti contrattuali (dipendenti, autonomi, atipici) che introduca protezioni sociali anch'esse più uniformi soprattutto tra uomini e donne anche utilizzando gli strumenti degli enti bilaterali. Significa aprire anche per le lavoratrici la chance dell'adesione ad un secondo pilastro a capitalizzazione individuale, superando quella odiosa discriminazione che vede oggi solo un 30% di donne tra gli iscritti ai fondi pensione. Tutto ciò in quanto sul versante dei divari salariali, della progressione di carriera, dell'utilizzo del part time e del sistema formativo, dei servizi per conciliare tempi di lavoro e vita, il Paese è inchiodato ad un differenziale uomini-donne - italiano ed europeo - gravemente collocato in fondo alle graduatorie internazionali. Non si dimentichi mai che la Ue considera il pensionamento a 60 anni per le donne una discriminazione di genere e che il nostro paese può essere presto sanzionato per questo motivo. Ma tale eventualità non può essere lo spauracchio che ci deve portare ad affrontare la questione dell'aumento dell'età pensionabile. È la consapevolezza che sarà con la forza delle riforme robuste che accompagneremo la caparbietà delle donne di entrare e restare nel mercato del lavoro con quella pari dignità della quale sono consapevoli e a cui hanno diritto, per contribuire allo sviluppo economico e sociale del nostro Paese.  

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