Cerca
Cerca
Edicola digitale
+

Il premier Berlusconi ha promesso di attuare la riforma ...

default_image

  • a
  • a
  • a

Giovanni fu lasciato solo in pasto ai suoi assassini proprio da quella sinistra togata, che ancor oggi difende con le unghie e con i denti i propri privilegi corporativi, anzi da vera e propria casta. Dall'indegna canéa, si dissociarono, va detto a loro merito, Giancarlo Caselli e Ilda Boccassini, la quale, anzi, accusò così alcuni magistrati: «Voi avete fatto morire Giovanni. Adesso qualcuno ha pure il coraggio di andare ai suoi funerali. Due mesi fa ero a Palermo in un'assemblea dell'Associazione nazionale magistrati. Non potrò mai dimenticare quel giorno. Le parole più gentili, specie dalla sinistra, da Md, erano queste: Falcone si è venduto al potere politico. Mario Almerighi lo ha definito nemico politico. Tu, Gherardo Colombo, che diffidavi di Giovanni, perché sei andato al funerale? Giovanni è morto con l'amarezza di sapere che i suoi colleghi lo consideravano un traditore. E l'ultima ingiustizia l'ha subita proprio da quelli di Milano, che gli hanno mandato una richiesta di rogatoria in Svizzera senza gli allegati. Mi ha telefonato e mi ha detto: "Non si fidano neppure del direttore degli Affari Penali"…». La Boccassini si riferiva al pool milanese e a Di Pietro, che allora trattarono Falcone come un poco di buono. Costoro, poi, cadavere ancora caldo - come scrisse Montanelli - fecero a gara nel farsi vedere con le «unghie conficcate nella bara». Su Giovanni Falcone, specie Di Pietro, stante la terribile imparità, dovrebbe soltanto nascondersi e tacere. Va aggiunto, inoltre, perché l'argomento è ancora tutto da sviscerare, che a Capaci, 23 maggio 1992, insieme a Falcone, alla moglie, agli agenti della scorta, alla stessa civiltà giuridica, muoiono le possibilità di far chiarezza sul riciclaggio del «tesoro» del Pcus, misteriosamente scomparso a Mosca nel 1991 e sicuramente transitato nella Penisola presso «compagni» ed amici fidati. Del resto, quel filone di ricerca, che Falcone affidò in ultimo a Borsellino, cadde del tutto con l'ulteriore tremenda strage di via D'Amelio (19 luglio 1992). Un pensiero non conforme. Cosa immaginava Falcone di tanto spaventoso per codesta genìa di togati? A Milano il 5 novembre 1988, nel corso di una conferenza pubblica, fece il punto sulla progressione automatica di carriera: «occorre rendersi conto che l'indipendenza e l'autonomia della magistratura rischia di essere gravemente compromessa se l'azione dei giudici non è assicurata da una robusta e responsabile professionalità al servizio del cittadino. Ora, certi automatismi di carriera e la pretesa inconfessata di considerare il magistrato - solo perché ha vinto un concorso di ammissione in carriera - come idoneo a svolgere qualsiasi funzione (una specie di superuomo infallibile ed incensurabile) sono causa non secondaria della grave situazione in cui versa attualmente la magistratura. La inefficienza dei controlli sulla professionalità, cui dovrebbero provvedere il CSM ed i consigli giudiziari, ha prodotto un livellamento dei magistrati verso il basso». Fu immediatamente richiesta nei suoi confronti una mozione di censura da parte di esponenti dell'Anm. Falcone non coltivava teoremi, né voleva riscrivere la storia d'Italia. Per lui, giudice a Berlino, esisteva la prova, non le illazioni, le prove logiche, le deduzioni politicizzate. Pagò subito il suo anticonformismo. L'Unità risuonò: «Falcone preferì insabbiare tutto». Repubblica passò alle ingiurie: Falcone è un vanitoso, un montato, uno che assomiglia ai «guitti televisivi». Scalfari sponsorizzò il velenoso Leoluca Orlando Cascio, che accusava Falcone di nascondere prove compromettenti verso politici democristiani: «Orlando apre davanti al Csm i cassetti dei misteri siciliani». Giovanni, imperterrito, attizzando l'odio dei fautori dell'uso alternativo del diritto, rifiutò solennemente di piegarsi al khomeinismo giudiziario. Fu costretto a difendersi da accuse demenziali, davanti alla Santa Inquisizione del Csm (15 ottobre 1991), perché aveva criticato un certo «modo di far politica attraverso il sistema giudiziario». Avendo capito quello che stava montando, presagì lucidamente il forcaiolismo dei primi anni Novanta del secolo scorso: «L'Italia pretesa culla del diritto, rischia di diventarne la tomba». Infatti, lo diventò. Giovanni, da eroe dell'antimafia era, ormai trasfigurato a «nemico» di classe, di partito, di corrente, di casta, un «venduto» ai partiti liberaldemocratici, che avevano avuto il torto di assicurare agli italiani mezzo secolo di libertà, di progresso, di benessere. Il Notiziario di Magistratura democratica publicò una lettera, firmata, fra gli altri, da Antonino Caponnetto, decisamente ostile al suo progetto di Superprocura, definendolo «inadeguato, pericoloso, controproducente». Infine, come preannunciato dall'Unità e dal professor Pizzorusso, il Csm lo bocciò per la carica di Superprocuratore, inibendo al padre di gestire la sua creatura. Fu il sigillo finale del rigetto dell'uomo, non solo del magistrato, che s'era schierato per un controllo istituzionale sull'attività del pm, per la separazione delle carriere, per farla finita con l'obbligatorietà dell'azione penale e con la partitocrazia del Csm. Brani della «riforma» Falcone: Ecco, di seguito, un'antologia del suo attualissimo ragionamento sui mali della giustizia: - «Il CSM è diventato anziché organo di autogoverno e garante dell'autonomia della magistratura, una struttura da cui il magistrato si deve guardare... (con) le correnti trasformate in cinghia di trasmissione della lotta politica». -«Quanti altri danni deve produrre questa politicizzazione della giustizia?». -«Io dico che bisogna stare attenti a non confondere la politica con la giustizia penale». -«Non si può investire della cultura del sospetto tutto e tutti. La cultura del sospetto non è l'anticamera della verità. La cultura del sospetto è l'anticamera del Khomeinismo». -«Dopo tanto tempo e tanti sforzi spesi per far riconoscere i connotati dell'organizzazione mafiosa, si finisce col mescolare nel calderone di Cosa Nostra tutto ciò che può assomigliargli». -«Al di sopra dei vertici organizzativi di Cosa Nostra non esistono terzi livelli di alcun genere». - «L'idea del terzo livello prende le mosse... da una relazione svolta da me e dal collega Giuliano Turone a un seminario del 1982 a Castelgandolfo... Attraverso un percorso misterioso, per non so quale rozzezza intellettuale, il nostro terzo livello è diventato il 'grande vecchio', il 'burattinaio', che, dall'alto della sfera politica, tira le fila della mafia. Non esiste ombra di prova o di indizio che suffraghi l'ipotesi di un vertice segreto che si serve della mafia, trasformata in semplice braccio armato di trame politiche» . -«Mi sento di condividere l'analisi secondo cui, in mancanza di controlli istituzionali sull'attività del Pm, saranno sempre più gravi i pericoli che influenze informali e collegamenti occulti con centri occulti di potere possano influenzare l'esercizio di tale attività. Mi sembra giunto il momento di razionalizzare e coordinare l'attività del Pm finora reso praticamente irresponsabile da una visione feticistica della obbligatorietà dell'azione penale e dalla mancanza di efficaci controlli della sua attività» . -«il pm non deve avere nessun tipo di parentela col giudice e non essere, come invece oggi è, una specie di paragiudice... Chi, come me, richiede che siano, invece, (giudice e pm) due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nella carriera, viene bollato come nemico dell'indipendenza del magistrato, un nostalgico della discrezionalità dell'azione penale, desideroso di porre il Pm sotto il controllo dell'Esecutivo».

Dai blog