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Bossi è costretto a fidarsi del Pd

Bossi

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Ma anche così non è detto che alla fine gli daremo quello che vuole». Il commento di un senatore proprio del Partito Democratico fotografa con sufficiente precisione lo stato d'animo della maggior parte della classe dirigente del Pd. E fa capire come mai ci sia un così fitto scambio di commenti e opinioni tra le due formazioni. La bozza di riforma presentata nei giorni scorsi da Calderoli a Tremonti non ha avuto un'accoglienza calorosa da parte del Pd ma almeno non è stata bocciata a priori.  Anzi, da Antonello Soro a Sergio Chiamparino a Nicola Latorre, tutti hanno concordato che si tratta di una base sulla quale si può iniziare a discutere. Di più. I Democratici sono perfino disposti a sorvolare sugli eccessi verbali del senatùr pronto a «ricorrere al popolo se si dovessere allungare i tempi della riforma». Nicola Latorre, ad esempio, ieri ha riportato la sortita di Bossi nell'ordinaria amministrazione: «Niente di nuovo sotto il sole, Bossi è solito alzare i toni, ma alle minacce non sono mai seguite azioni concrete». E il leader del Carroccio non può far altro che approvare questa linea. Perché sa che solo se riuscirà ad approvare in Parlamento la riforma federale con i due terzi della maggioranza potrà evitare le forche caudine del referendum costituzionale. Ben sapendo che il risultato sarebbe quello del 2006, quando in tutto il Sud (in Calabria si toccò l'80 per cento dei no) venne bocciata la riforma. L'articolo 138 della Costituzione prevede infatti che nel caso di un sì a larga maggioranza da parte delle Camere (i due terzi) non si debba ricorrere alla consultazione popolare. Sul piatto Bossi, per invogliare il Pd, può mettere la sua capacità di essere un interlocutore molto ascoltato da Berlusconi. Ma anche il fatto che la «pancia» del Carroccio è estremamente forcaiola e giustizialista. E questo è quello che alletta il partito di Veltroni. Il quale, in cambio di una possibile apertura sul federalismo, vuole una sponda per contrastare Berlusconi sul tema delle riforme della giustizia. «In questo momento — spiegano dentro il Pd — non siamo noi che cerchiamo Bossi ma viceversa. E allora cerchiamo di portare a casa il massimo risultato possibile». Quale? Logorare la Lega in un'estenuante discussione sul federalismo — così come il centrodestra ha fatto durante il primo governo Prodi nel '96 con la bicamerale e sulla riforma elettorale — per poi approdare ad un nulla di fatto. E allo stesso tempo provare a stoppare Berlusconi sulla idea di mettere di nuova mano all'ordinamento giudiziario. Il leader del Carroccio sa che questo è il rischio che corre ma sa anche che altra strada non c'è per portare a casa l'unica cosa che può dare un significato alla presenza della Lega nella coalizione di governo. Ed è per questo che ai primi di settembre proprio il senatùr sarà alla Festa del Pd a Firenze. Scenderà nella tana del lupo per cercare di non fare la fine di Cappuccetto Rosso.

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