Stefano Mannucci ...
Avessero voluto strafare, i maggiorenti di Pechino potevano metter su una coreografia alla buona, l'omino che sbarra il passo a carrarmati di cartapesta, e quelli che si aprono per sparare colombe in cielo. Fosse accaduto, avrebbero avuto un senso pieno le parole del presidente Cio Jacques Rogge, su questi «Giochi che trasformano il sogno in realtà». Invece niente: troppi fantasmi incombevano sulla sovraffollata cerimonia d'apertura delle Olimpiadi. Mancava pure uno straccio di accenno al più grande sportivo della recente storia cinese, quell'infaticabile nuotatore di nome Mao, che avanzava con un sontuoso crawl nelle acque del Fiume Giallo, mentre a milioni finivano risucchiati nel gorgo della dittatura, dopo la «Stagione dei Cento fiori». Accadeva mezzo secolo fa: questo popolo si illudeva ancora di poter criticare la linea del partito. Nella magnificenza vagamente sinistra di un evento provato e modificato in ogni singolo gesto fino all'ossessione, quel che resta, alla fine, è la corsa onirica dell'ultimo tedoforo, sospeso in aria al rallentatore sulla cornice del Nido d'Uccello: il ginnasta Li Ning, sei medaglie a Los Angeles '84, arricchito imprenditore dell'abbigliamento sportivo, incarna l'inesorabile avanzata del capitalismo d'Oriente, che magari si aggrappa a un filo, ma arriva a quote impensabili e brucia ogni concorrenza, come neppure la fiamma del tripode. Pechino ha vissuto la notte della sua grandeur, dopo «secoli di umiliazioni», provando a raccontare al mondo che la mirabilia dei fuochi d'artificio può far distogliere gli sguardi dal Tibet; e sperando che le prodigiose trovate del regista Zhang Yimou dessero sostanza al miraggio delle Olimpiadi dell'«armonia», la parola preferita dal presidente Hu Jintao, più volte composta con ideogrammi «umani». Tutto talmente perfetto che, per una frazione di secondo, uno dei figuranti, uno fra centinaia, si è mosso fuori tempo e ha fatto capire, con il suo errore, che l'emozione esiste anche in quel tipo di cuore. Ecco, serviva l'inciampo, per offrire il colpo d'ala della magia all'algida infallibilità di una massa di comparse. Occorrevano le bambine, quelle stesse che in alcune province del Paese vengono accolte come se fossero disgrazie, come braccia inutilizzabili, come bambole sgradite di cui disfarsi senza pietà, e invece fatte nascere a migliaia oggi, nel giorno della formula cabalistica 8-8-2008. Commuoveva la piccola che cantava l'inno nazionale davanti al pianeta, o l'altra che seguiva in quota il suo aquilone, o quella piccolina che sedeva al piano accanto al virtuoso Lang Lang, ma aveva tanta voglia di infilarsi le dita nel naso. Per non dire dell'eroe del miniatura che sfilava accanto al gigante del basket Yao Ming, portabandiera dello squadrone di casa: nove anni, era scampato al sisma del Sichuan salvando i compagni di classe. Figurarsi se lo intimidiva marciare di fronte a miliardi di spettatori. Quello era incanto, subito spezzato da un passo dell'oca militare, da uno sketch collettivo impeccabile e glaciale. Come il countdown luminoso d'apertura, con i 2008 percussionisti che sembravano annunciare una misteriosa forma di ostilità, e non un benvenuto. La Cina ha presentato la propria leggenda strappandone le pagine più scomode e affidandosi all'ipertecnologia di globi e maxipergamene, per rievocare Confucio e gli astronauti, la Via della Seta e l'Esercito di Terracotta, la Grande Muraglia, o la rivendicazione della scoperta dell'America, qualche decennio prima di Colombo, grazie all'eunuco Cheng Ho. Già, l'America. Ci si aspettava una reazione ostile dopo l'ultima intemerata di Bush e la scelta dell'ex profugo sudanese Lomong come simbolo Usa, e invece piovevano applausi sugli yankee, che rispondevano sventolando bianchi baschetti da jazz ruggente. Pochi i fischi per le 204 squadre, giusto un po' freddina l'accoglienza per i rivali storici dell'India, mentre era un tripudio per Taipei, senza stare a vedere se quella è davvero una nazione indipendente o solo una provincia cinese. Gli smagati giapponesi, ex odiatissimi nemici, arrivavano sventolando bandierine dei due Paesi; c'era simpatia, dopo vent'anni di assenza, per la ritrovata Albania; per l'Iraq e pure per l'Iran: semmai, erano proprio gli integralisti di Teheran a non gradire la scelta di un'alfiere donna per i rappresentanti di Ahmadinejad, mentre gli Emirati Arabi optavano per la bellissima figlia del primo ministro di Dubai. Diventava un giallo la «distanza» improvvisa tra le due Coree, che il programma voleva l'uno dopo l'altra nell'ingresso allo stadio. Momenti di tensione sparsi in un corteo persino troppo allegro, per una cerimonia d'apertura che il Cio vorrebbe più composta: e fra sms sparati in mondovisione, videocamere, balletti rap, palloni usati come cappelli e inguardabili divise (povero Bubka, abbigliato come un cameriere a Las Vegas) gli atleti internazionali contrapponevano libero e provocatorio sbracamento al «tutti in fila e allineati» dei padroni di casa. I nostri, addirittura, esageravano dietro all'esultante Antonio Rossi. Un tripudio di tricolori con scritte e dediche, e per qualche minuto ci si interrogava su una possibile censura della tv di Pechino sulla bandiera in cui compariva la frase «Da Jesi a Frascati a Trieste vi conciamo per le feste». Figurarsi. Il vero scandalo era lontano da lì, con l'azzurra cubana Tai Aguero costretta a tornare ai Giochi, dopo la mancata concessione del visto dall'Avana. La pallavolista voleva riabbracciare la madre in fin di vita, ma il suo Paese d'origine non le ha perdonato la scelta di espatriare. In tribuna, i potenti lì a stringersi mani, freneticamente: Bush, all'ultima sortita importante, abbracciava Shimon Peres e confabulava con Putin, che in cuor suo malediva l'impegno olimpico, lui lì a guardare di sottecchi i georgiani a sfilare mentre l'Ossezia bruciava. Il volto di Karzai era tormentato dai tic, Sarkozy fingeva sorpresa con il figlio, una volta inquadrato, come un parvenu qualsiasi. Vuota la sedia di Mugabe, per non creare imbarazzi diplomatici agli organizzatori, e del resto la compagine dello Zimbabwe era piena di bianchi, mentre la portabandiera della Norvegia era di colore. Il mondo che si mischia e si confonde, con il Brunei costretto al ritiro (avevano dimenticato di iscrivere gli atleti alle gare...) e Nauru e Palau che si rivelano isole del Pacifico, lontanissime dalla Sardegna. Tutto sembrava possibile, nella notte dell'illusione di Pechino. A metà cerimonia, un gruppo di performer si metteva in posa per riprodurre la silhouette dello Stadio. Non un tarocco, ma quasi.