Cerca
Cerca
Edicola digitale
+

Addio ad Antonio Gava, s'ammalò di persecuzione

default_image

  • a
  • a
  • a

Cresciuto alla scuola del padre, Silvio, una figura storica del partito dei cattolici italiani,egli imparò giovanissimo l'arte di tessere alleanze nel variegato mondo delle correnti democristiane. Non si costruiva una maggioranza senza il suo apporto, sia che si trattasse di fare segretario Flaminio Piccoli, della sua stessa corrente, sia che si trattasse di eleggere Ciriaco De Mita, come avvenne nel 1983, sia che si trattasse di riportare alla guida del partito Arnaldo Forlani, come avvenne nel 1989, a quasi vent'anni di distanza dalla sua prima elezione. Lui si accontentava, spesso con battute ironiche, di passare da un incarico ministeriale ad un altro, o di fare il capogruppo parlamentare. Nato e cresciuto in una terra difficilissima come la Campania, così diversa dal tranquillo Veneto dal quale proveniva il padre, Gava ne visse e in qualche modo impersonò anche le contraddizioni, mai tirandosi indietro dalle responsabilità, anche le più scomode. In piena stagione terroristica, per esempio, gli capitò di gestire il sequestro di un suo amico di partito e di corrente: l'assessore regionale Ciro Cirillo. Per quanto fosse ancora fresco e lacerante il ricordo della tragedia di Aldo Moro,per la cui liberazione non si era ritenuto di poter aprire alcun negoziato con le brigate rosse,Gava volle e ottenne che per Cirillo si trattasse,anche a costo di usare per le trattative,con l'aiuto dei servizi segreti,gli uomini della camorra. Che controllavano purtroppo il territorio meglio delle forze dell'ordine e non si prestarono certamente gratis alla collaborazione per mettere con le spalle al muro i terroristi. Le polemiche che ne seguirono furono naturalmente atroci. Ma Gava le affrontò a viso aperto, convinto di aver fatto quel che si doveva. Rispetto alla vicenda Moro, d'altronde, il quadro politico era cambiato. Era finita la stagione dei governi democristiani appoggiati esternamente dai comunisti, che nel 1978 non avevano potuto neppure apparire tentennanti verso le brigate rosse sapendo di averle in qualche modo generate. Dicevo, all'inizio, del timore di vedere il povero Gava prigioniero anche dopo la morte, avvenuta ieri all'età di 78 anni, dell'immagine negativa dell'uomo di potere disposto a tutto per conservarlo. Che è poi l'immagine comunemente attribuita negli anni passati ai dorotei, che pure avevano creato la loro corrente nella Dc all'insegna della tolleranza e della moderazione, in polemica con l'andatura a strappi di Fanfani sulla strada dell'apertura a sinistra. Ebbene, a farmi avvertire il timore di Gava prigioniero anche da morto di un'immagine negativa è stato un lungo articolo dedicatogli dal Corriere della Sera mercoledì scorso, con la notizia dell'estrema unzione appena ricevuta dal «viceré»,come veniva chiamato nei suoi anni d'oro l'uomo che stava ormai spegnendosi nell'ospedale milanese San Raffaele. Bisognava arrivare alla fine della prima delle tre colonne di quell'articolo per trovare la notizia che Gava, arrestato sotto l'accusa di associazione mafiosa, era stato assolto in appello dopo tredici anni e due mesi, avendoci rimesso nel frattempo la faccia e la salute, peraltro già malferma. Pensate: tredici anni e due mesi. Che non sono evidentemente bastati a liberarlo dalla rappresentazione dell'uomo che metteva il potere davanti a tutto. Da quella rappresentazione forse fui inconsciamente influenzato anch'io nel 1991, quando gli telefonai per esprimergli il mio stupore avendo appena saputo da Bettino Craxi che il segretario della Dc Forlani aveva incontrato l'irremovibile e decisiva opposizione di Gava alle elezioni anticipate. Eppure Francesco Cossiga al Quirinale si diceva disposto a concederle nel caso in cui fosse scoppiata una crisi di governo. Chiesi a Gava quale «convenienza politica» avvertisse nella prospettiva di portare a termine regolarmente una legislatura che ritenevo ormai sofferente, senza ancora immaginare il terremoto politico che sarebbe arrivato l'anno dopo con Tangentopoli e le indagini «mani pulite». Chiesi perché mai la maggioranza, piuttosto che affrontare le tensioni abituali dell'ultimo anno di legislatura, con l'opposizione comunista in difficoltà per avere dovuto cambiare nome al partito dopo il crollo del muro di Berlino, e con la Lega che cominciava a insidiare nel Nord i tradizionali bacini elettorali dello scudo crociato, non dovesse avvertire l'utilità di anticipare di un anno le elezioni. Gava mi spiazzò dicendo, dopo qualche dubbio espresso sulla disponibilità di Cossiga a sciogliere le Camere: «Non è detto che ciò che conviene sia sempre giusto». Non potevo avere una risposta più lontana dallo stereotipo doroteo.

Dai blog