La Russa: "Siamo un governo con molta destra"
Ministro Ignazio La Russa, sanità e sicurezza sono i due grandi temi che stanno da sempre a cuore agli italiani. Non crede ci sia bisogno di maggiore attenzione? «Io aggiungerei anche il tema dello sviluppo del lavoro. Per quanto riguarda sanità e sicurezza, dividerei il campo in due aree: una riguarda le risorse necessarie e disponibili, l'altra i contenuti. Su quest'ultimo punto il governo ha tutte le carte in regola. Il nostro primo obiettivo, infatti, è stato dare una svolta in merito alla percezione della sicurezza da parte del cittadino. Persino la vicenda di Napoli, che apparentemente non riguarda la sicurezza, in realtà crea la percezione di sicurezza. Con i militari, invece, abbiamo dato un aiuto ulteriore alle forze di polizia. Le risposte di contenuto, quindi, ci sono. Così come le carte in regola le abbiamo nel campo della sanità, dove più che l'inefficenza mi preoccupano gli sprechi. Siamo abituati a una sanità a doppia velocità, al di là degli scandali. Non a caso tanta gente del sud si sposta a nord per farsi operare». E le risorse? «Se vogliamo non mettere le mani nelle tasche dei cittadini e dare più servizi, la prima cosa da fare è ridurre i costi dello Stato e ora nessun comparto è immune. Anche la Difesa, ma non dimentichiamo che la specificità del comparto sicurezza deve essere una priorità per qualsiasi governo. Da quando ci sono le missioni di pace all'estero c'è un decreto che le finanzia, fuori dalla Finanziaria. Questo decreto normalmente stanzia delle somme che coprono circa l'80 per cento del costo effettivo delle missioni. L'altro venti per cento è coperto dal bilancio ordinario. Ho detto ai generali che da dicembre la decisione sui costi sarà politica. Il governo e il Parlamento ci devono dire quante spese possiamo sopportare e in base a questo quali missioni si possono fare o mantenere. Il futuro è ragionare sui costi reali delle missioni, nonsu quelli fittizzi. E per tutti questi aspetti ho grande fiducia del mio sottosegretario Crosetto». Tra le missioni, quella in Afghanistan è forse la più delicata. Quali sono gli obiettivi strategici in quest'area? Ed esistono margini di ripensamento sull'impiego dei militari in Iraq? «Non è previsto un nostro ritorno in Iraq. Noi lì ci siamo, ma solo come istrutturi. Al massimo potremmo inviare altri istrutturi, se richiesto, perché ormai il modello di lavoro dei carabinieri italiani è riconosciuto da tutti. Mentre resta aperto il problema per le altre missioni. Quella che merita più attenzione, effettivamente, è l'afgana. L'obiettivo che mi sono posto è la trasparenza, non lasciare nell'equivoco la reale situazione». Qual è la reale situazione? «È un Afghanistan lontano dalla capicità di governarsi autonomamente, ma che va progredendo. C'è necessità di mantenere i nostri impegni e rimanere per un tempo non breve. C'è la necessità, poi, di dire che i nostri soldati sono lì non solo per fare opere umanitarie, ma anche per fare i soldati veri. Nella nostra zona sono stati ripetutamente impegnati in operazioni militari, in cui è stato necessario usare la giusta forza. Qualcuno ha criticato la decisione di rendere più flessibile, con i caveat, l'intervento delle truppe italiane. A questo proposito permettetimi di fare un'osservazione importante, proprio da uomo di destra». Prego. «Nel momento in cui vado a fare una missione di pace assieme agli altri con pari dignità e pari doveri, non capisco un certo sciovinismo della sinistra che cerca di creare un clima di paura dicendo: "Il governo aumenta i rischi per i nostri militari". Ma se anche fosse vero che i nostri ragazzi rischiano di più, l'alternativa quale sarebbe? Che morivano degli spagnoli, degli inglesi, dei civili afgani. Un uomo di destra, sbagliando, potrebbe dire: "Chi-se-ne-frega". Ma io non lo faccio, perché per me vale prima di tutto il concetto della solidarietà, della parola data e della lealtà. Ma una persona di sinistra, come chi parla con uno spirito umanitario, i pacifisti per esempio, come possono sostenere che è un'errore consentire ai nostri soldati di intervenire? L'ultima operazione pericolosa dei nostri è stata in soccorso del contingente spagnolo e dei civili afgani. Se non fossero intervenuti i nostri sarebbero morti gli spagnoli. Perciò attenzione a cadere nella trappola di chi ammanta anti-americanismo di maniera». Il generale Petreus ha scelto di fatto una strategia simile a quella italiana, che funziona egregiamente. Però gli americani in Afghanistan insistono con un modello diverso e questo a volte crea problemi alle forze alleate. Alla Nato questa strategia come viene valutata? «Io credo che il modello italiano stia prendendo corpo, o non si spiegherebbero certi apprezzamenti. Diciamo che in questa fase ci sono differenze di applicazione». Tornando in Italia, qualcuno ha sollevato delle critiche sull'esperienza dei militari che verranno utilizzati nelle città. «Mi meraviglio, perché sono gli stessi ragazzi che mandiamo in Afghanistan o che hanno ripulito Napoli. Vede, credo sia più difficile stare davanti a un'ambasciata piuttosto che in una pattuglia mista con carabinieri o polizia. Si vede che certe valutazioni sono solo ideologiche. Perché i militari nelle città avranno una divisa ordinaria, un'armamento a canna corta e saranno con carabinieri o polizia. Questo è solo antimilitarismo scoria del Sessantotto. Solo gli esperti saprebbero riconoscere i militari in città. Sfido gli stranieri a capire chi è il poliziotto, chi il carabiniere e chi il militare. Siamo alla follia». Che turni faranno i soldati? «Lo decide il prefetto. Ma lavoreranno prevalentemente nelle ore serali. Gireranno a piedi, o con una macchina d'appoggio, nei quartieri più a rischio. Vogliamo dare un segnale forte di presenza dello Stato. Del resto dei militari devono avere paura i delinquenti, non i cittadini. E mi piace ricordare che Roma avrà, su tremila soldati, più di mille uomini in campo». Al di là dei vertici e delle assemblee, la base di An con quale spirito affronterà la confluenza nel Pdl? «Quando da un soggetto si passa a un altro c'è sempre un dato sentimentale. Da una casa a cui si vuole molto bene si entra in una casa più prestigiosa: siamo contenti, ma è normale che la propria casetta resti nel cuore. Però c'è la gioia e l'orgoglio di andare a costruire qualcosa di importante, ma guai se entrassimo in una casa già costruita». Questo processo non è legato troppo alle scelte di Berlusconi? «Noi ci siamo presentati a una lista con Berlusconi candidato presidente. È stato Fini ad andare da Berlusconi e dire: "Facciamo il Pdl". Ci siamo presentati assieme, abbiamo raccolto quello che gli elettori avevano già detto il 2 dicembre e abbiamo fatto partire un treno che ci ha dato un grande successo elettorale, ma anche una grande visibilità ad An. Berlusconi è capo del governo e capo del Pdl, ma non è un capo senza altri leader nel partito. Credo che Fini in questo Pdl sia, al di là del ruolo istituzionale, un leader naturale. Semmai, non vedo un problema di leadership, ma la necessità di dividere in due fasi il percorso del partito». Quali? «Serve leggerezza operativa e solidità delle regole. Vedo una fase transitoria, con regole un po' diverse. All'inizio ci sarà un corpo normativo tale da assicurare una fase transitoria. Un periodo tanto lungo quanto necessario. Poi il partito con regole prestabilite già adesso. Dal punto di vista valoriale, invece, ci stiamo perché tutta l'identità di An deve entrare nel Pdl. E questo non vuol dire che deve diventare un partito identitario». Berlusconi ha detto in più di un'occasione che questo è un governo di centro. Lei è contento? «Questo è il governo più di destra di tutti i precedenti governi Berlusconi. Da quando è partito ha parlato di sicurezza, di famiglia, di immigrazione, ha tolto le tasse. Poi si può anche dire che si fa una politica di sinistra, ma è chiaro che è detto per "sfrugugliare" i giovani di sinistra». Sono passati poco più di dieci anni dalla chiusura dell'esperienza politica dell'Msi. Vi sareste immaginati di arrivare così lontano? E di quel bagaglio valoriale cosa è arrivato? «Della storia dell'Msi c'è tutto quello che ha conservato An. Allora fu un processo doloroso, perché dovemmo rinunciare a qualcosa. Ci fu una scissione vera e culturale, non come quella della Santanchè. La nostra generazione è quella che nella politica ha investito le proprie speranze, non il proprio calcolo. Tutti quelli che oggi ci sono hanno iniziato pensando alla politica come qualcosa da dare e non da prendere. E a essere sinceri non ci saremmo immaginati di arrivare qui. Pensavamo che le nostre tesi sarebbero state vincenti, ma credevamo che tutto questo l'avrebbero visto i nostri figli e non io. L'unico che seppe capire meglio ciò che sarebbe accaduto fu Tatarella». Sul piano umano e affettivo, cosa le suscita ancora oggi il ricordo di Paolo Di Nella e Sergio Ramelli? «Davanti al muro dove c'è la lapide di Sergio, che era un mio amico, ogni anno mi fermo anche più di una volta. Sono con noi, io li considero con noi anche se non gli metti una divisa. Quello che posso dire è che quello che hanno fatto quei ragazzi, che non volevano essere eroi, è non stare zitti. Non pensavano di dover pagare con la vita, ma erano pronti a rischiare qualcosa per esprimere le proprie idee. Hanno rappresentato molto di più del ricordo. Senza loro non avremmo avuto la forza morale di mantenere dritto il timone, di non cedere a nessuna tentazione extraparlamentare. Loro ci hanno dato questa forza e oggi credo siano con noi». Ministro, dopo che la maggioranza è andata sotto alla Camera Berlusconi ha detto ai senatori che lavorano meglio dei deputati. Italo Bocchino, vice presidente del Pdl alla Camera, ha giudicato «infelici» le parole del premier. Lei cosa pensa? «Io c'ero alla cena con i senatori, quando è stata detta questa cosa. Berlusconi bisogna conoscerlo, parlava ai senatori e ha fatto un complimento a loro. Bocchino ha ritenuto di dover dare un segnale perché lo chiedevano i suoi deputati, che però non hanno ascoltato bene le parole di Berlusconi. Io non vedo una nota di biasimo per i deputati, ma una nota di merito per i senatori. Ed era anche scherzosa la frase. Berlusconi non divide i nostri parlamentari in buoni e cattivi. Il fatto è che i deputati che criticano non hanno ascoltato il taglio ironico della frase di Berlusconi». I tagli alla Difesa attuati dal ministro Giulio Tremonti sono ispirati dalla necessità di razionalizzare le spese e liberare risorse per gli investimenti. Insomma mettere ordine in casa propria. Vi state preparando? «Siamo convinti che nel generale sforzo di riduzione dei costi dello stato non possiamo tirarci indietro. Ma scontiamo il fatto che le forze armate in Italia sono quattro e questo crea duplicazioni e sovrapposizioni di spese. Ci stiamo lavorando. Un esempio: non ho firmato il rinnovo di ben 15 pubblicazioni della Difesa. Ho detto ai responsabili: voglio solo una rivista, ben fatta e che arrivi edicola. Ancora: per quanto riguarda le campagne promozionali della Difesa é inutile farne quattro per ciascuna forza, facciamone una sola. Il problema è dunque anche culturale. Dobbiamo superare la divisione storica tra i corpi delle forze armate. Solo così riusciremo a razionalizzare». Rapporto col cittadino. Quali sono le iniziative che vi differenzieranno dalla vecchia gestione? «Festa del 4 novembre e Novantesimo anniversario: ho insediato una commissione mista, con militari e civili, per ridare corpo, senso, dignità e prestigio alla festa delle forze armate. Da quando la leva non è più obbligatoria c'è poca informazione di cosa fanno i nostri ragazzi, quindi pur con risorse ridotte sono in progetto molte iniziative per riavvicinare la gente. Non saranno solo le persone, famiglie e studenti, ad andare nelle caserme, ma saranno i militari a uscire fuori dalle caserme». Qual è il fine? «Voglio che i valori delle forze armate, dalla solidarietà alla libertà, siano messi a disposizione dei giovani e degli italiani in genere. Voglio dare ai giovani la possibilità di fare un periodo, di un mese massimo, di preparazione atletico, militare e culturale che li prepari a future azioni di volontariato».