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E Napolitano impose la sua linea

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Il presidente della Repubblica è atteso a un evento su Francesco De Sanctis che si tiene a Palazzo Venezia. Arriva puntuale, saluta la prima fila. Calorosamente Mariastella Gelmini, ministro della Pubblica Istruzione, stringe la mano a Francesco Giro, sottosegretario ai Beni Culturali, e si va a sedere al suo posto, la poltrona presidenziale, al centro delle due file. Ascolta le relazioni di un gruppo di professori, una lettura di Toni Servillo. E poi informa il suo staff, che freme alle sue spalle perché il tempo scorre e bisona andar via, che no, lui vuole rimanere. Poi si alza, nuovi saluti, qualche gesto di cortesia e via, imbocca un corridoio, dice che ha gradito molto l'intervento di Biagio De Giovanni, filosofo, suo vecchio amico, e lascia Palazzo Venezia. Con Gianni Letta, il braccio destro di Berlusconi, invece, che pure era lì ad aspettarlo, il gelo, la freddezza. A stento un saluto. Eppure lunedì, quel lunedì, non è stata una giornata qualsiasi. Napolitano era arrivato a Palazzo Venezia dopo aver ricevuto sul Colle Gianfranco Fini e Renato Schifani. Si era parlato dell'ingorgo istituzionale, dei troppi decreti in scadenza e dell'impossibilità - de facto - di affrontare un nuovo testo, come quello sulle intercettazioni. È l'inizio della svolta. Il giorno dopo Berlusconi va a Napoli e strilla, urla, afferma che va avanti e si dice pronto anche a un decreto che blocchi le registrazioni, provvedimento che il Quirinale ha già fatto trapelare di non gredire. Napolitano invece non parla, scrive. E scrive al Csm vietando di fatto al plenum di esprimere il parere di incostituzionalità. È un segnale che a Palazzo Chigi attendevano. Mercoledì Berlusconi non strilla più, nella riunione mattutina con i vertici di Forza Italia si capisce che l'aria è cambiata. Il premier va da Fini e il presidente del Consiglio lo affronta a muso duro. Gli dice chiaro e tondo che il decreto sulle intercettazioni non si può fare, non ci sono i tempi, non ci sono gli spazi e non è opportuno. È la linea Napolitano, Berlusconi ne deve prendere atto: i suoi principali alleati, Fini e Bossi, non sono d'accordo sull'intenzione di aprire il confronto istituzionale. Ma nelle stesse ora dal Colle arriva un altro messaggio di non poco conto: viene autorizzata la presentazione alle Camere del disegno di legge in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato, il «lodo Alfano». Sì allo stop ai processi, dunque, ma le intercettazioni vadano avanti. Giovedì il clima si fa più sereno. Umberto Ranieri, uno dei pupilli di Napolitano, cammina veloce atraversando piazza Colonna. Sta parlando al telefonino, vede un amico e interrompe la comunicazione per domandare le ultime novità. Ormai è chiaro che il giorno dopo il consiglio dei ministri non varerà alcun decreto sulle intercettazioni: «È la linea più gradita al Colle», commenta il deputato del Pd. Venerdì, il governo decide che si parlerà solo di ciò che si sta facendo e Gianfranco Rotondi, ministro per l'Attuazione del Programma, si lascia scappare: «È passata la linea di Napolitano». Insomma, al lunedì si è rischiata la crisi istituzionale. Sabato tutti al mare felici e contenti. Riflette Andrea Geremicca, uno degli amici più cari di Napolitano (i due si sentono abitualmente nel fine settimana): «Il presidente è preoccupato. Anzi, forse sarebbe meglio dire infastidito. Perché indubbiamente poteva essere lieto del nuovo clima che si era instaurato nel Paese, mentre invece oggi sembra prevalere la divisione. Di certo proverà a fare tutto quello che è possibile perché le istituzioni non si logorino. E credo che risultati, anche significativi, si stanno vedendo». Geremicca, che oggi presiede la fondazione Mezzogiorno Europa nata dal centro studi che fondò l'attuale Capo dello Stato, si sofferma anche su un altro aspetto: «Bisogna guardare anche quello che il presidente sta cercando di fare per Napoli. Senza interferire con le istituzioni locali, s'è impegnato a fondo». E Napoli non è poi così lontana da Roma. Mai come adesso.

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