Il giallo nel giallo. Spariscono le intercettazioni, a Napoli regna il caos

Per giorni è stata fatta circolare la voce che quelle intercettazioni fossero state rubate mesi fa dall'abitazione di un magistrato partenopeo. Qualche giornale lo ha anche scritto, prima tra le righe, poi con più evidenza. E molti hanno ricordato come lo scorso inverno le cronache locali avessero riferito di un furto con scasso nella casa posillipina di Paolo Mancuso, all'epoca procuratore aggiunto che coordinava l'inchiesta del pm Vincenzo Piscitelli su Berlusconi e Saccà. Fratello del più noto Libero Mancuso (il giudice del processo per la strage di Bologna oggi assessore di Cofferati), anche il secondogenito non ha mai fatto mistero delle sue simpatie di sinistra: esponente di spicco della corrente di Magistratura Democratica, in passato corsivista della redazione campana di Repubblica, Paolo Mancuso poteva sembrare il capro espiatorio ideale. Ma due più due non fa sempre quattro. E quella del furto in casa Mancuso si è rivelata una bufala. Il Procuratore capo in persona, Giovandomenico Lepore, smentisce seccamente: «Nessun atto giudiziario dell'inchiesta in questione risulta essere mai stato rubato». E a chi gli chiede se sia stata aperta un'indagine sulla fuga di notizie che ha reso possibile la pubblicazione delle intercettazioni, Lepore chiarisce: «Sono atti depositati al gip, quindi a disposizione delle parti e dei relativi avvocati». Come dire che nessun segreto è uscito dalla Procura. Tanto che nemmeno dal Ministero della Giustizia, spiegano fonti di via Arenula, si sono sognati di aprire un'indagine interna, o di mandare gli ispettori a Napoli. Lui, il diretto interessato dalle voci infondate, pare non ci abbia fatto un dramma. Mancuso ha le spalle larghe ed è abituato e ben altri colpi. Cinquantanove anni, 34 dei quali trascorsi in magistratura, a marzo è diventato Procuratore di Nola dopo aver «sfiorato» la nomina a capo del Dap, il potentissimo Dipartimento per l'amministrazione penitenziaria. L'allora Guardasigilli Mastella gli preferì un'altra toga partenopea, Ettore Ferrara. Del resto Mancuso è abituato agli alti e bassi della vita, la sua carriera è costellata di successi e polemiche. Carriera che ruota attorno a Napoli, dove è stato prima giudice istruttore, poi pubblico ministero, coordinatore della Direzione antimafia, e infine Procuratore aggiunto dopo una parentesi romana, alla fine degli anni '90, come vice di Giancarlo Tinebra proprio al Dap. Di lui si ricordano le inchieste scottanti sul clan Nuvoletta e sugli intrecci tra politica, affari e camorra. Raccolse le rivelazioni di due superboss del calibro di Carmine Alfieri e Pasquale Galasso ed istruì l'inchiesta che portò all'arresto di Antonio Gava (poi assolto). Mancuso fu anche tra i più anziani e autorevoli dei 64 magistrati napoletani che si ribellarono ad Agostino Cordova, firmando un documento al Csm che avrebbe portato alla «rimozione» d'ufficio del Procuratore. Sempre Mancuso firmò le richieste di arresto per otto poliziotti accusati di violenze sui No global a Genova. Fu il momento più teso dei rapporti tra Procura e ministero degli Interni, con gli agenti che si ammanettarono per protesta davanti alla Questura. Ma Mancuso è stato anche varie volte oggetto delle attenzioni della commissione disciplinare del Csm, una volta per un articolo contro il capo dell'ufficio, un'altra per aver convocato in Procura un manipolo di disoccupati organizzati: da queste e da altre incolpazioni, però, il magistrato è uscito sempre a testa alta. Come pure se l'è cavata senza conseguenze penali o disciplinari quando sulla testa gli è caduta la tegola più pesante: l'accusa di favoreggiamento e rivelazione di segreto d'ufficio nei confronti di presunti esponenti di un clan camorristico. È successo quando il quotidiano Roma rivelò sue frequentazioni con persone intercettate dalla Dda perché sospettate di nascondere Paolo e Cosimo Di Lauro, i boss della faida di Scampia. A metterlo nei guai fu la sua passione per la caccia, che lo portò a frequentare soggetti non sempre raccomandabili. Tra cui un pluripregiudicato attualmente detenuto per omicidio e associazione camorristica e un boss della Sacra Corona Unita. La Procura di Roma chiuse l'inchiesta con una richiesta di archiviazione. E lo stesso fece il Consiglio superiore della magistratura.