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I processi al premier si moltiplicano se è al governo

SIlvio Berlusconi in tribunale

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È successo nel 1994, quando il pool di Milano gli inviò un avviso di garanzia nel pieno di una conferenza internazionale sulla criminalità che Berlusconi stava presiedendo, così da produrre una lesione d'immagine internazionale. E fu l'inizio della fine del primo governo Berlusconi. È successo tra il 2001 e il 2006, quando la maggioranza fu costretta a intervenire - senza grande successo - con diverse misure legislative nel tentativo di arginare l'azione politica dei pubblici ministeri, azione politica che ha portato alle condanne di Previti e di Dell'Utri, messi nel mirino solo per la loro storica vicinanza a Berlusconi. Sta succedendo adesso con il processo Mills, un campionario di abusi procedurali consentiti solo dal fatto che pm e giudice sono politicamente contigui e si considerano militanti politico-giudiziari e non servitori dello Stato. Un processo che nelle intenzioni di molti dovrebbe portare alla condanna del premier e, quindi, alle sue dimissioni e alla definitiva fuoriuscita dalla politica. Il carico giudiziario nei confronti di Berlusconi, invece, rallenta nei periodi in cui il leader del centrodestra è all'opposizione. Tra il 1996 e il 2001 si sono risolti nel nulla molti procedimenti avviati nei due anni precedenti, e a Berlusconi è stata offerta la possibilità di dialogare con la maggioranza nella commissione bicamerale per le riforme presieduta da Massimo D'Alema. E anche nella breve legislatura iniziata nel 2006 e conclusa nel 2008 non si è avuta notizia dello scontro tra pm e Berlusconi. La scansione temporale che riportiamo qui è ovviamente sommaria, ma potrebbe essere dettagliata procedimento per procedimento, indagine per indagine, senza timore di smentita. Ed è una scansione che dimostra inequivocabilmente che lo scontro in corso è tutto politico e non riguarda affatto l'amministrazione della giustizia così come essa dovrebbe realizzarsi in uno stato di diritto. E la posta in gioco è un'altra e investe la legittimazione delle istituzioni democratiche, il Parlamento e il governo, espressioni dirette e mediate della volontà popolare. Se non si comprende questo, la proclamata svolta del Pd e del suo leader, la volontà di abbandonare gli schemi del passato sono parole vuote di senso. Il Partito democratico dimostrerà di essere una cosa diversa dall'Unione antiberlusconiana quando abbandonerà non solo il giustizialismo delle parole, ma la sudditanza al partito dei pubblici ministeri e di quel coacervo di poteri e di élité che dall'inizio degli anni 90 dello scorso secolo tiene in scacco la democrazia italiana. Rompere con Di Pietro non vuol dire scegliere una data diversa per una identica manifestazione; e nemmeno un tono di voce più o meno pacato. Rompere con Di Pietro vuol dire abbandonare la tentazione giacobina della spallata giudiziaria su cui i postcomunisti hanno fondato i loro ultimi vent'anni. Solo se si schiererà contro il partito dei pm, il Pd diventerà democratico così come si intende in occidente.  

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