«L'Italia è una nazione che può parlare a tutti». È anche ...

Sa che ci vorrà del tempo prima di vedere Ankara nell'Unione europea, ma il messaggio che sta per portare è positivo. E non riguarda solo l'Italia. Le foto di rito con George W. Bush, Kofi Annan e Berlusconi, raccontano parte della sua storia politica. Frattini, che ministro degli Esteri lo è già stato tra il 2002 e il 2004, e fino a pochi mesi fa ha ricoperto l'incarico di vicepresidente del Consiglio europeo, è sicuro che il sogno dell'Ue debba continuare grazie anche ai rapporti provilegiati tra Roma, Parigi e Berlino. Durante il colloquio con Il Tempo ha confessato che solo uno scenario internazionale vede, per ora, nebbioso: la sarà la politica del nuovo presidente americano nei confronti dell'Europa. Ministro Frattini, l'Ue su quale cammino deve proseguire? «Il tema dell'Ue si può declinare in due modi. Da un lato non c'è alternativa ad avanzare nel processo di integrazione, perché è chiaro che anche dagli esiti di incontri internazionali si capisce che se non si lavora come Unione europea, su temi come il petrolio o il terrorismo siamo tutti molto più deboli. L'integrazione europea, quindi, serve a dare forza agli Stati membri e non a indebolirli. Quello che all'inizio sembrava un cedimento della sovranità nazionale, oggi è chiaramente un rafforzamento della capacità di incidere. Perché se vogliamo negoziare con i cinesi norme anti dumping, una cosa è se negozia l'Italia, un'altra se negozia l'Europa. Il secondo aspetto è come spiegare ai cittadini tutto ciò che fino a questo momento non hanno compreso: che questa complicata struttura istituzionale è in realtà utile per prendere decisioni proprio per i cittadini. I nostri padri fondatori avevano in mente un sogno: la pace e la prosperità. Raggiunti questi obiettivi si è pensato il mercato unico. E oggi ci sono i diritti delle persone. L'Europa, come vedete, non si risolve solo in un voto a maggioranza o meno». Come spieghiamo l'Europa ai suoi cittadini? «Investendo di più nella comunicazione diretta. Il Trattato di Lisbona è difficile da leggere per gli addetti ai lavori, figuriamoci per il cittadino. Quindi prima di tutto semplifichiamo la comunicazione, poi serve uno sforzo di tutte le istituzioni per puntare su risultati concreti. La commissione adotta spesso proposte legislative ed ha il diritto di iniziativa, ma accanto a quello serve comunicare». Per comunicare serve una leadership. C'è? «Ci sono leadership che si stanno rodando. Penso a Merkel e Sarkozy che stanno assumendo una capacità di leadership europea. In questo contesto teniamo presente che, per esempio, Sarkozy ha riaperto un tema che Berlusconi aveva già proposto in passato: il ruolo della Bce e della politica rispetto alle decisione, quasi meccaniche, che prende. Questo lo dico perché le nuove leadership europee si devono saldare con le vecchie leadership. Berlusconi è stato tre volte nel Consiglio europeo e i colleghi lo considerano il leader anziano a cui chiedere di essere la memoria storica del Consiglio stesso. Quindi, è una leadership che trova saldature importanti tra Roma e Berlino e Roma e Parigi. E a questo aggiungo una presenza forte come quella di Gordon Brown che, nonostante i problemi dentro casa, ha le condizioni per allineare il sistema britannico e il Regno Unito ad un asse pre-europeo. Io credo che parlare oggi di un rapporto privilegiato Roma-Berlino Roma-Parigi si può». Ma per il 5+1 la Germania pone un veto all'Italia. «Non parlerei più di veto, ma di una situazione fluida in cui i tedeschi non hanno obiettato alla partecipazione alla fase tecnica per i negioziati con l'Iran, tanto è vero che il mio direttore politico partecipa alle riunioni. Quindi è come se fosse un 5+2. È chiaro che se oggi dicessimo: fermiamoci tutti a discutere di formule, mentre non sappiamo se gli iraniani risponderanno e come risponderanno all'offerta di Solana, faremmo un errore. Ecco perché ho detto di lavorare nel 5+2 tecnico e non di ragionare su i modelli. Se tra qualche mese la proposta di Solana sarà respinta al mittente, si discuterà dell'eficacia di quel modello e se è idoneo. Anche per questo condivido l'iniziativa dei giapponesi di parlare dell'Iran a Kyoto durante il G8 dei ministri degli Esteri». Noi siamo fondamentali in Medioriente. Pensa che l'Italia possa entrare in mediazione anche con gruppi come Hezbollah e Hamas? «L'Italia è sempre stata, a livello politico, un Paese con la possibilità di parlare a tutti. Il nostro ruolo con Unifil 2 ci mette in condizione di parlare in Libano con Hezbollah e con il governo Siniora. Di parlare con la Siria e certamente con Israele. Andrò tra qualche settimana in Israele a trovare la mia collega israeliana, vedrò a Ramallah il presidente Abu Mazen e tornerò in Egitto per una visita politica. Noi siamo rispettati da tutte le parti. Siamo convinti che sulle fattorie di Shebaa ci sia la possibilità per l'Italia di collaborare positivamente, di dare agli amici israeliani qualche argomento in più per accettare un suggerimento che viene ormai anche dagli Usa: di valutare in un contesto più ampio la demarcazione dei confini tra il Libano e Israele, e tra Israele e Siria. Queste fattorie hanno dato a Hezbollah l'alibi per essere lì con le armi. Se noi eliminiamo questo alibi aiutiamo anche il governo Siniora ad andare verso il disarmo di tutte le milizie. Il semplice fatto che Israele inizi a parlare delle fattorie di Shebaa è un segno importante, nonostante il governo israeliano stia passando un momento di turbolenza». Quindi il suo giudizio sulla missione internazionale al confine tra Libano e Israele è positivo? «Credo che la missione Unifil stia lavorando bene, perché fa si che non ci sia più il lancio di missili nel nord di Israele». Un'analoga esperienza andrebbe tentata al confine con Gaza? «Lì la situazione è più preoccupante, perché Gaza è sotto il controllo di Hamas che non è un interlocutore rispetto a cui l'Europa si può impegnare, fino a che non cancella dalla sua Carta la distruzione di Israele. C'è una differenza: una cosa è trattare a livello di intelligence per la restituzione di un progioniero, ma altra cosa sono le diplomazie. La trattativa oggi è impraticabile e l'Italia ha delle idee molto ferme. Noi avremmo difficoltà sullo schieramento di un contingente in quell'area. La mia priorità politica è rafforzare Abu Mazen e non legittimare Hamas». In Israele parte dell'opinione pubblica crede che oggi il problema sia interno al Paese. Alcuni abitanti di una nazione in guerra da 60 anni rinuncerebbero a tutti i territori pur di arrivare alla pace. Lei condive questa visione? «Io sarei almeno per evitare la moltiplicazione delle colonie, come purtroppo sembra volersi fare anche adesso. Evitiamo di moltiplicare gli insediamenti prima ancora del ritiro da quelli che ci sono. La replica dei miei amici israeliani è ragionevole, comprensibile, ma è chiaro che l'immagine che si dà se continuiamo a fare altri insediamenti, è un'immagine negativa. Anche perché non credo che Israele abbia una forza politica tale al suo interno da poter dire: ci ritiniamo domani da tutto. Questo si può fare se gli accordi di Annapolis saranno rispettati. Niente è concordato finché tutto non è stato concordato». L'11 settembre del 2001 è una data che ha cambiato la storia. I due più importanti effetti sono le operazioni militari in Afghanistan e in Iraq. Di queste operazioni, oggi, che giudizio possiamo dare? «Si può dire che nel momento storico in cui esse sono nate è stato giusto farle. È stato giusto liberare l'Afghanistan dai talebani. Alla luce di quello che emergeva in quel momento, la scelta fu corretta. Ed è giusto che noi oggi rimaniamo in Iraq. Io non sono per mandare nuove truppe, ma penso che sia fondamentale che il Prt di Nassiriya continui a essere lì, diretto dall'Italia». In Afghanistan in modello-Italia funziona. Non è il caso di «imporlo» al resto della coalizione Nato? «Non è facile ma ci proviamo. Bisogna immaginare che il comportamento dei vari contingenti è influenzato dalla storia e dalla personalità delle provenienze territoriali. Gli italiani hanno un approccio italiano, che coniuga la risolutezza a un'azione di antiterrorismo, alla gentilezza nei rapporti umani. Noi siamo fatti così, anche con le armi in mano. Questa "diffusione" (del modello, ndr) potrà esservi tanto più quanto gli altri contingenti nazionali capiranno che è anche nel loro interesse comportarsi così». I canadesi lo stanno facendo. «Lo so bene». C'è qualcosa di italiano, quindi, nel modello Petreus per l'Iraq? «C'è e devo dire che loro ce lo riconoscono. Ho parlato con il primo ministro Al Maliki e lui ha detto: "Caro ministro, i nostri poliziotti, quando sono addestrati dai vostri carabinieri, le operazioni le fanno meglio". Noi lavoriamo, siamo così». Tra cinque mesi gli Stati Uniti d'America eleggeranno il nuovo presidente. Qual è la sua riflessione alla vigilia del cambiamento? «Intanto lasciatemi dire che Bush sarà apprezzato più da ex presidente che da presidente. Inoltre, credo che dopo di lui su alcuni grandi temi la politica estera americana non cambierà. Ho invece un grande punto interrogativo sull'Europa. Lo devo dire con chiarezza: non abbiamo ancora capito i due candidati cosa pensano dell'Europa. Non è stato tema di campagna elettorale, non perché non interesa, ma comunque è un dato di fatto. Bush, per esempio, al suo secondo mandato ha fatto la sua prima visita ufficiale alle istituzioni europee dando un forte segnale. Cosa faranno i due candidati? Il nuovo presidente lo deve dire». Tornando all'Italia, quali obiettivi ci poniamo per l'Africa? «Vogliamo interessarci di più a questo continente, infatti la delega sull'Africa, come per il G8, è mia. Saranno materie di mia specifica attenzione e interesse. Chiaro che per fare politica sull'Africa serve uno sviluppo e i tagli subiti non aiutano. Quindi dobbiamo ridefinire le priorità. Noi diamo molti soldi per cooperazioni unilaterali di cui perdiamo le tracce, ma riorientiamo la cooperazione italiana verso una cooperazione bilaterale». Ministro, i due grandi protagonisti di questo secolo sono l'India e la Cina. Oltre ad apprezzarne il grande sviluppo economico c'è qualcosa che ci preoccupa? «Mi preoccupa un interrogativo: se questi due Paesi sono pronti o meno a lavorare contro la degradazione dell'ambiente. Loro devono essere i grandi alleati nella strategia del G8 sulla tutela dell'ambiente». La Turchia che speranze ha di entrare in Europa? «Deve essere aiutata a continuare i negoziati. Io sarò domani mattina (questa mattina, ndr) ad Ankara per incontrare il presidente Erdogan e porterò un messaggio anche da parte di un gruppo di Paesi europei che simpatizzano molto con le aspirazioni turche: dal Regno Unito alla Spagna fino alla Polonia. L'interesse dell'Europa è non chiudere la porta in faccia alla Turchia, anche se ci vorrà del tempo per portare a termine i negoziati».