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Fabio Perugia [email protected] Sull'eventualità di ...

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Con un trattato ormai «morto», è arrivato il momento di disegnare l'Europa per il popolo e non per i burocrati. Ma l'Italia, spiega il senatore a vita, difficilmente potrà avere un ruolo di primissimo piano: «La storia è la storia. Non saremo mai la Francia, né la Germania, né la Gran Bretagna e rischiamo di non essere nemmeno la Spagna». E non è un caso se dal divano della sua abitazione romana, Cossiga continua a ricordare le parole del suo caro amico Helmut Schmidt. L'ex cancelliere della Repubblica federale tedesca gli spiegò, capendo però l'invidia italiana, che nel Vecchio Continente l'asse è da sempre franco-tedesco. Presidente Cossiga, come giudica la bocciatura irlandese al Trattato di Lisbona? «Vedo dalle reazioni al voto negativo dell'Irlanda al Trattato che molti in questa valutazione non sanno separare le ragioni giuridiche da quelle politiche e sentimentali. Voglio chiarire una cosa, prima di tutto: quanto è stato detto dal primo ministro britannico Gordon Brown, cioè che il Trattato è morto, è assolutamente vero. Perché il trattato, per entrare in vigore, avrebbe bisogno del voto di tutti i Paesi. Quindi coloro i quali annunciano che bisognerebbe andare avanti con la ratifica, commettono un errore giuridico: non si può ratificare qualcosa che è morto». Cosa si può fare? «Se questa deve essere la strada si può pensare di impegnare i governi europei, quelli che ci stanno, a sottoscrivere subito lo stesso Trattato. Potremmo pensare a un atto di adesione al testo. Ma, ripeto, l'idea generosa di qualcuno che vuole andare avanti con le ratifiche non ha senso. Io rispetto molto il presidente della Repubblica e il presidente del Senato, ma i buoni sentimenti sono una cosa e il diritto costituzionale internazionale un'altra. Ho parlato con il ministro degli Esteri poco fa e ho detto che bisognerebbe organizzare un grande dibattito politico e votare anche una mozione in cui si danno delle indicazioni precise su cosa si deve fare. Ma soprattutto bisogna che gli italiani, e tutti gli altri popoli, abbiano un'idea dell'Europa che vogliono». Perché si è arrivati alla bocciatura del testo da parte del popolo irlandese? «Teniamo presente che l'Irlanda ha ottenuto soltanto nel 1922, dopo la pasqua di sangue, l'indipendenza e il riconoscimento della sua identità celtico. Non può rinunciare alla sua identità senza sapere a cosa va incontro». Perché aleggia diffidenza attorno al progetto? «Perché i cittadini vedono l'Europa sempre più come l'Europa dei burocrati. Guardiamo, e badi bene che io non sono leghista, a quello che ha detto Tommaso Padoa Schioppa ("non sono testi che si sottopongono al veto degli elettori"). Se si trattasse di accordi tecnici lo capirei, ma sono accordi coi quali rinunziamo a parti molto importanti della nostra sovranità». La Lega propone un referendum. «Io nella precedente legislatura ho presentato un disegno di legge costituzionale. Ora dobbiamo scegliere. Decidiamo se prendere la strada dell'Europa veramente unita e questo significa per esempio la difesa comune, un esercito sotto un unico comando, come era l'esercito imperiale tedesco. Ma io, prima ancora, vorrei sapere quanti italiani conoscono cosa c'è scritto nel trattato di Lisbona e mi chiedo quanti parlamentari italiani l'abbiano letto, senza offendere nessuno. La gente non sa cosa è l'Europa. Ciò che mi spaventa è l'indifferenza degli italiani. Dall'odio può nascere amore, dall'indifferenza nulla». Che il popolo debba avere una consapevolezza maggiore del passo che si compierà lo dice anche l'ex presidente Ciampi o il ministro Franco Frattini, per fare due nomi. «Guardi, io sono nato in una famiglia antifascista dove si era per forza contro l'antisemitismo e europeisti. Ma questa Europa se noi la facciamo esaminare ai giuristi, cosa sia veramente non si sa, non si capisce». Lei come la definirebbe? «Impotente e onnicomprensiva. Abbiamo un'Europa che, talvolta, per le cose importanti è impotente. Poi abbiamo un'Europa che vuole verificare, mettere multe e vedere quali leggi fa il Parlamento italiano, con l'operato di un "oscuro" commissario. Mi chiedo: ma perché la Commissione crede di essere un governo? Quando io sono stato presidente del Consiglio dei ministri, una volta il grande cancelliere socialdemocratico tedesco Schmidt bloccò l'allora presidente della Commissione dicendo: "Stia zitto lei, che è il primo dei nostri impiegati"». Qual è stato l'errore dell'Europa? «Non c'è una politica unica. Non aver creato un nucleo forte. Non essersi data istituzioni certe prima dell'allargamento. E di essersi messa su questa strada diluendo l'Europa stessa. Tra l'altro, apro una parentesi: con il Trattato di Lisbona, grazie a un meccanismo, se si mettessero d'accordo tre o quattro piccoli Stati l'Italia verrebba fatta fuori». Dopo il no dell'Irlanda si sono fatte alcune ipotesi. Tra queste quella, che lei non condivide, di andare avanti comunque. Qual è la sua soluzione? «O si segue la via britannica (e le assicuro che gli inglesi hanno tirato un sospiro di sollievo dopo il voto irlandese) e si accetta l'idea che l'Europa è una zona di libero scambio con un moneta unica, tenendo però bene a mente che non tutti i Paesi dell'Unione europea fanno parte dell'eurozona. Oppure prendiamo la forma della confederazione o della federazione, dove i poteri reali derivano dal popolo, dove c'è una compartecipazione tra i governi di stati e i governi d'emanazione diretta del Parlamento: si fa una commisione con persone, che in pratica sono alti funzionari o politici "trombati". Ma un governo che risponda all'assemblea politica». Molti, prima di iniziare a parlare della fase politica, discutono sul problema dell'identità. «Dobbiamo dire che l'idea d'Europa è sorta dopo la grande strage della Prima Guerra Mondiale e poi come una forma di lotta antifascista. Ma oggi questa è un'Europa senza identità. È un bene se molte persone fanno appello alle radici giudaico-cristiane. La realtà è che l'Europa è un cocktail, se no non esiste, di Atene-Gerusalemme-Roma. Un'Europa senza identità e senza valori non si costituisce. Israele, del resto, senza la sua cultura e i suoi valori non sarebbe nata. Stessa cosa è successa con la Svizzera, che all'interno aveva diverse culture ma i valori erano comuni. Poi sono stati fatti anche altri errori. Nella formazione, si sono creati, e in questo ha ragione il presidente Sarkozy, delle autorità che non rispondono a nessuno come la Banca centrale europea, che fa la sua politica in teoria anche totalmente diversa da quella dei Paesi membri». L'Italia potrà mai essere al centro della scena? «Schmidt mi disse una volta che capiva la nostra invidia e perplessità per l'amicizia particolare che forma l'asse franco-tedesco. Ma disse anche che l'Europa è sorta su quest'asse a iniziare dai tempi della Comunità del carbone e dell'acciaio». Quindi l'Italia che ruolo può assumere in questo cammino? «Dobbiamo tenere presente che l'Europa è un continente che si è formato nell'Europa centrale, la storia è storia. Siamo stati sempre usati al di là delle Alpi. Inoltre, consideriamo che la politica democristiana ha avuto sempre due attrazioni: quella di guardare al Mediterraneo e quella di guardare all'Europa. È una cosa che si ripete nel popolo italiano, lo vediamo nel caso della quieta equidistanta tra israeliani e palestinesi: ma purtroppo questa equidistanza non c'è. Nel caso di Israele non c'è stata soprattutto con il precedente governo. Non so quanti, dopo l'attacco di Hezbollah, hanno avuto il coraggio di partire e andare in Israele: io l'ho fatto». Mi scusi, sta dicendo che siamo destinati a restare un passo indietro rispetto ai grandi? «Credo che noi italiani avremmo fatto molto meglio, dopo la parentesi degasperiana, a essere il primo dei Paesi medi, che essere l'ultimo dei Paesi grandi. Non è soltanto un fatto di ricchezza. Noi dobbiamo capire che la politica internazionale è un rapporto tra forze e noi non siamo la Germania, non siamo la Francia, non siamo il Regno Unito e rischiamo di non essere neanche la Spagna. Naturalmente dobbiamo fare di tutto per inserirci in questo gioco tenendo conto di alcune realtà storiche. Certamente qualunque cosa dica Sarkozy desta molta attenzione a Berlino e viceversa Parigi starà molto attenta a cosa dice Berlino o Londra. Noi che siamo a Roma cerchiamo di metterci in mezzo, ma non possiamo pensare di poter destare attenzione come succede per gli altri grandi Paesi d'Europa. Silvio Berlusconi deve accontentarsi». Giulio Tremonti spiega che dopo l'era del sogno europeo è arrivata la fase economica. «Vale a dire facciamo gli affari... Beh, mi lasci un attimo spiegare che con l'euro è stato fatto un errore. Mi ricordo che vi furono persone come Monti, come Paolo Savona e altri grandi industriali che avevano forti dubbi sul fatto che si dovesse entrare da subito nel grande giro della moneta unica. E furono accusati di antieuropeismo. Che le condizioni economiche italiane siano dovute a un'inappriopriata forma del nostro ingresso nella zona dell'euro, su questo credo che non ci piova». La spiegazione di Tremonti prosegue dicendo che ora tocca alla fase politica. «L'Italia non ha mai avuto una grande vocazione in politica estera. Non ci dimentichiamo che siamo una nazione giovane rispetto alla Francia e alla Germania. Dobbiamo essere anche onesti e dire che siamo una "periferia" dell'Europa».

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