De Gennaro, lo «Sbirro» che piace a destra e sinistra
La prima perché sedici anni fa nel suo cuore considerato di ghiaccio si è aperta una ferita mai più rimarginata. Uno squarcio grande quanto quello scavato dal tritolo di Cosa Nostra nell'asfalto di Capaci quando il suo amico e compagno di lotta alla Mafia Giovanni Falcone saltò in aria con la moglie e la scorta. Il curriculum di De Gennaro è chilometrico e senza macchie, se si esclude l'unica ombra non ancora fugata, la richiesta di rinvio a giudizio per aver istigato alla falsa testimonianza l'ex questore di Genova Colucci dopo i fatti del luglio 2001. La sua carriera, fulminante. Ma preceduta da una lunga gavetta. «Il capo», come lo chiamavano tutti al Viminale, è stato un vero piedipiatti, cioè un poliziotto che ha consumato le suole delle scarpe, che ha battuto la strada per anni senza risparmiarsi e senza evitare di mettere a rischio la pelle. Laureato in legge a Roma, entra in polizia nel '73 come commissario ad Alessandria; nel '75 diventa dirigente dell'antidroga nella Capitale; nell'81 assume la direzione della Criminalpol laziale ed entra in contatto con la malavita organizzata; nell'84 viene trasferito alla Direzione centrale della polizia criminale. Comanda prima il Nucleo centrale anticrimine e poi il Servizio centrale operativo (Sco). Nel 1991 ha l'incarico di vicecapo della Direzione investigativa antimafia, che dirigerà dall'aprile 1993. E il 26 maggio del 2000 arriva la nomina a Capo della Polizia. Due le promozioni sul campo per «merito straordinario». A vicequestore aggiunto quando, era il 1980, è protagonista di un conflitto a fuoco nell'ambasciata belga di Roma, dove uno squilibrato aveva fatto trenta ostaggi e ferito un diplomatico. A dirigente superiore nel '90, dopo aver portato a termine con successo una serie di operazioni di rilievo internazionale contro la mafia siciliana. Per la Cupola, infatti, il neodirettore del Dis è uno dei nemici più temuti. Affianca Falcone per undici anni, indaga sulla «Pizza Connection», fa arrestare il re dell'eroina Koh Bah Kim in Thailandia, progetta l'operazione Iron Tower, ammanetta personalmente il boss Tommaso Inzerillo nella Repubblica Dominicana. È lui che trova la combinazione della «cassaforte Buscetta», lo convince a parlare e lo porta in Italia. Ed è la «sua» polizia che interrompe l'eterna latitanza di Bernardo Provenzano. I suoi contatti internazionali sono numerosi, e fruttuosi. Sviluppa ottimi rapporti con la Dea, l'Fbi, le polizie canadese e australiana. Nel 2006 gli viene conferita, unico caso per uno «sbirro» non americano, la Medal of Meritorius Achievement del Bureau of Investigation. De Gennaro, che è sposato e ha due figli, uno avvocato e uno giornalista, per la sua freddezza si è guadagnato il soprannome di «Squalo». Chi lo sconosce bene, però, sa che «Digei», come lo chiamano gli amici, ha dovuto trattenere le lacrime quando ha incontrato la vedova Turrazza, madre di due agenti morti in servizio, che gli disse: «Soffro per i miei figli ma le sono vicino perché lei di figli ne ha migliaia». E la sua personalità sfida lo stereotipo, perché il piedipiatti di strada calabrese che ama il blazer, fuma come un turco e scappa appena può in Maremma per una cavalcata assieme ai suoi amici butteri, non è solo un lavoratore dai ritmi inumani. L'allievo di Vincenzo Parisi e Fernando Masone ha una sensibilità e una raffinatezza politico-istituzionali fuori dal comune. Come dimostra il plauso bipartisan (da Gasparri, che sottolinea le sue caratteristiche di «servitore dello Stato, oggetto di stima trasversale», a Minniti, che lo definisce «un eccellente professionista») con cui è stata accolto il suo approdo al Dis. Un «premio» al merito anche questo, preceduto da due incarichi di grande responsabilità. A metà 2007 quello di capo di gabinetto del ministro dell'Interno Amato e, l'8 gennaio scorso, la rogna del commissariato straordinario per l'emergenza rifiuti. Ha un pugno di mesi per risolverla, la maleodorante emergenza. Non ci riuscirà. E la «guerra alla monnezza» sarà la sua unica sconfitta.