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Fini lascia, An viaggia verso il Pdl

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Dunque, si chiude un'epoca. Si chiude il ventennio finiano alla guida della Destra. Dal 1987 con una sola interruzione, per un anno (tra il '90 e il '91). Un ventennio di trasformazioni, di cambiamenti, di strappi e di nuove adesioni, di rotture e di matrimoni. Fini oggi proverà a fare un bilancio di questa fase storica. Un bilancio che è facile fare: prese il partito al 4% e lo ha portato anche a sfiorare il 16. Basterebbe questo. Ha fatto entrare la Destra nell'arco costituzionale, l'ha sdoganata, l'ha trasformata, l'ha portata al governo. Al governo del Paese, al governo di Roma. La vittoria di Alemanno, ha raccontato ai parlamentari pochi giorni fa, gli ha procurato un'emozione più grande di quando è diventato vicepremier, un'emozione simile a quando mise la prima volta piede in Parlamento un quarto di secolo fa. Il neopresidente della Camera, incarico di fatto incompatibile con l'essere leader di partito, ha buttato giù un po' le linee guida del discorso che terrà oggi, ma parlerà a braccio. Perché la giornata non sarà solo storica per lui che lascia il partito, lo sarà anche per la sua formazione che deciderà il percorso verso lo scioglimento. Le tappe sono segnate. Oggi Ignazio La Russa prenderà il timone, in autunno ci sarà il congresso e nella primavera dell'anno prossimo il nuovo partito, il partito unitario, il Popolo della Libertà. E Fini sottolineerà proprio come quando il partito è stato unito ha raggiunto risultati storici. Forse non farà riferimenti specifici, ma è facile immaginare che pensi al recente successo nella Capitale e a quello alle Politiche. E così anche alle vittorie del 2001 sino, andando a ritroso, del '94. Solo un partito unito, è il ragionamento finiano, può affrontare la sfida del Pdl. Non si tratta di ammainare bandiere, si tratta di evolversi ancora una volta. Si spegne la fiamma, che d'altro canto resiste sempre più piccola nel simbolo di An, un logo che ha preso la strada dell'archeologia politica. Per Fini è già pronta la mega standing ovation come si conviene in queste circostanze. Applausi, lacrime, sorrisi, abbracci: il copione è già scritto anche se il leader spera in un cerimonia poco retorica. I discorsi che seguiranno, quelli dello stato maggiore del partito, dai La Russa ai Gasparri, dai Matteoli ai Ronchi passando, ovviamente, per gli Alemanno, i discorsi dunque saranno l'enfatizzazione della figura del loro capo. An oggi è sempre meno un partito e sempre più una comunità. Una comunità pacificata, in cui tutti i vertici hanno trovato o stanno per trovare la collocazione che cercavano. Non c'è (se mai c'è stata) un'opposizione interna. Non c'è nemmeno una critica interna. Sono uscite tutte le voci contro, da Storace alla Santanchè via Buontempo. L'unica testa autenticamente fuori dal coro resta quella di Adriana Poli Bortone. Perché l'ultima questione che rimane aperta è quella che questa comunità è organizzata sul modelo dell'Impero romano. C'è Roma (con i suoi senatori che sono l'ufficio politico) e c'è la periferia dell'Impero. La Poli Bortone, ministro e poi sindaco di Lecce, è la periferia, fuori dagli incarichi istituzionali al governo nazionale. In bilico anche il casertano Mario Landolfi, che pure la volta scorsa aveva fatto il ministro. In compenso c'è una nuova classe dirigente che avanza. Con Giorgia Meloni ministra a soli 31 anni. Ma non solo. Con Italo Bocchino vicecapogruppo vicario del Pdl alla Camera. Con Alberto Giorgetti e Andrea Augello che si contendono la carica di sottosegretario all'Economia, con Fabio Rampelli che spera nell'Ambiente. Con Stefano Saglia, l'uomo-energia. Con Antonio Buonfiglio che si prepara a tornare all'Agricoltura dove è stato capo di gabinetto del ministro. E già scalpitano i nuovi dell'ultima covata con Luca Sbardella, Francesco Grillo, Francesco Biava e Carlo Fidanza. F. d. O.

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