A Prodi tocca difendersi da solo
Tutta la campagna elettorale è stato un tentativo, vano, di segnare una discontinuità. Ancora ieri Europa quotidiano dell'ex Margherita, scriveva: «Veltroni ha ragione a cercare nell'eredità del governo Prodi e dell'esperienza del centrosinistra le ragioni della sconfitta. Anche noi pensiamo che sarebbe andata peggio se non si fosse affermata la discontinuità politica e programmatica. Se consideriamo che solo tre mesi fa il Pd era ancora lì a concordare con Ferrero e Pecoraro il rilancio della coalizione, è chiaro che in questo lasso di tempo miracoli non se ne potessero fare». E ancora: «Nel 2001 Fassino e Rutelli si presero l'onere di tenere in vita l'Ulivo sconfitto. Sbagliarono solo nell'accettare (per inerzia, senza entusiasmo) di restituire i destini a Prodi». Insomma, colpito da fuoco amico, il Professore sceglie la strada dell'autodifesa. «I conti che lascio sono ottimi. Abbiamo risanato il bilancio dello Stato» spiega orgoglioso ai cronisti che lo avvicinano a Bologna poco prima di partecipare al matrimonio di Filippo Andreatta (figlio di Beniamino ministro della Difesa nel primo governo dell'Ulivo, deceduto poco più di un anno fa). Il nostro lavoro «sarà ricordato dalla storia» aggiunge senza esitazioni facendo capire che, in questo modo, sarà tutto più facile per il governo di Berlusconi che invece ha parlato di tempi duri e decisioni anche impopolari. Prodi riconosce soltanto che se i tempi sono «duri», lo si deve «ai punti interrogativi sulla congiuntura internazionale» perché non è ancora chiaro «se sia crisi o recessione», ma la buona amministrazione del suo esecutivo che in tanti (e non solo avversari) hanno criticato per le troppe tasse, lascia un'ottima eredità a chi arriverà dopo. L'ex presidente del Consiglio, che in mattinata aveva ascoltato monsignor Gianfranco Ravasi, rettore del Pontificio consiglio della Cultura, ricordare ai cittadini italiani il passo del Vangelo sulla legittimità del tributo a Cesare («date a Cesare quel che è di Cesare»), si sente confortato dalle parole di un esponente di spicco della Chiesa che suonano come ammonimento a chi pensa che sia quasi un diritto evadere il fisco. Per questo insiste nel parlare «di conti in ordine» e di buona amministrazione. Ma va oltre, e quasi ammonisce il futuro governo a non disperdere il tesoretto. «Noi abbiamo lasciato i conti in ordine, ma il nuovo esecutivo dovrà fare quello che abbiamo fatto noi per il Paese. Non potrà certo scialacquare. Per questo mi auguro - aggiunge - che la buona amministrazione continui». Poi, ai cronisti che gli fanno notare come la geografia parlamentare si sia molto semplificata dopo l'esito elettorale, il Professore risponde: «Certo, adesso abbiamo un Parlamento con molti meno partiti e quindi potrà lavorare in modo più agevole». L'ultima battuta è per bocciare il Pd del Nord lanciato da Sergio Cofferati e sposato, in parte, da Walter Veltroni: «Il Partito Democratico è nato regionalista e federale. È così e non deve diventare niente». Il premier rompe così un silenzio che durava da settimane. E non è un caso visto che nel Pd l'unica voce che si alza in sua difesa è quella di Rosy Bindi che, con insistenza, chiede di non «archiviare l'eredità di Prodi con un semplice saluto».