«Fascista quello sempre, ma mi interessa il presente, i ...
Ora lavora in una tipografia alla periferia di Tarquinia, nella Comunità Mondo Nuovo, occupandosi di recupero di tossicodipendenti e della stampa della rivista bimestrale Il faro. Saluta come un vecchio amico il cane di quella comunità immersa nel verde, un maremmano di nome «Bella». Schiva le domande, racconta degli anni '70 quasi come se fosse stato un semplioce spettatore. Solo a tavola si lascia un po' andare e commenta da non credente un passo del vangelo secondo Giovanni. La prima cosa che sorprende di quel «gigante nero» di 190 centimetri che oggi ha 61 anni, è l'orologio. Tuti porta al polso un segnatempo digitale che sfalza di continuo il segnale: sembra uscito da un fustino di detersivo, con il cinturino che fa fatica a fasciare il polso di uno spietato neofascista che nel 1981 con quelle mani forti e grosse ha strangolato in carcere Ermanno Buzzi, il camerata «traditore». Quando glielo facciamo notare, sorride e rivela: «Quando ero dentro, un giorno Angelo Izzo si avvicinò per regalarmi un orologio d'oro. Mi avrebbe fatto comodo, diceva, magari per farmi amici o per corrompere qualche secondino. Non lo accettai, non me ne fregava niente di sapere l'ora». Di tempo, il neofascista in gabbia ne ha contato tanto: 29 anni filati. Oggi, però, «Caterpillar» - come lo chiamavano nei penitenziari di Livorno o Novara - rimarca di essere un uomo diverso. Sempre cordiale, pesa le parole. Le scandisce con quella calata toscana che lo caratterizza. Eppure ne ha di cose da raccontare. «Dei fuochi fascisti, io ho raccolto e alimentato i primi», rivendica con una fiammata d'orgoglio. Guarda, fissa, pesa chi gli è davanti da dietro i suoi inconfondibili occhiali a goccia, Tuti. Sconta tre ergastoli per l'assassinio di Buzzi, nell' '81, e di due poliziotti, Leonardo Falco e Giovanni Ceravolo, il 24 gennaio 1975. A questi «fine pena mai», il fondatore del Fronte Nazionale Rivoluzionario («Ci trovammo insieme con altri - spiega - non è che andammo dal notaio») assomma 14 anni per la rivolta capeggiata nel carcere di Porto Azzurro, il 25 agosto del 1987. Mostra anche una foto che conserva nell'agenda di pelle che porta sotto il braccio. Lo ritrae a torso nudo nel carcere di Ariano Irpino (nell'Avellinese), con i baffi spioventi e neri, giovanissimo mentre indossa al collo una svastica che ha tenuto per tutto il tempo del carcere. Poi - confida - quella croce uncinata «l'ho regalata durante un processo a una ragazza che faceva l'avvocato. Quando era più giovane mi aveva visto in tv e aveva detto: voglio indossare la toga e difenderlo quello lì, un giorno. Gliela diedi per simpatia, non me ne pento». Che bilancio fa della sua lotta armata? «È una somma abbastanza positiva. Mi indusse a fare un bilancio nel '93 - era da poco morta mia madre - Giuliano Capecchi, un ragazzo di Pistoia che venne a trovarmi in carcere. Mi disse: "In fondo sei stato fortunato". Se fossi rimasto a Empoli saresti stato il solito empolese: piccolo, stronzo e contento. Aveva ragione, perché con l'impegno qui in comunità da quattro anni ho riscoperto la vita. Il confronto con la sofferenza altrui ti rende più capace di capire storie che poi vivi nella tua stessa carne. Non è come andare a messa a Natale, qui ti giochi davvero tutto». Qualcuno ha scritto che il passato è un dio che neanche dio può cancellare. Lei rifarebbe tutte le cose che ha fatto? «Quello che ho vissuto e ho fatto era legato ad anni che sono finiti. Di quel periodo, anche noi siamo stati vittime. Sono in corrispondenza con due familiari di vittime della strage di Bologna. Stiamo facendo insieme un percorso di guarigione delle ferite». Oggi ha ancora senso dirsi «camerati»? «Sì, se intendiamo per camerati l'appartenenza a un gruppo umano e a una storia profonda. Fascisti si nasce, non si diventa. Io mi sono sempre sentito tale. E non per storia familiare: mio padre dopo l'8 settembre si è dato alla macchia, magari era anche su posizioni badogliane. Io no. Per quelli della mia generazione è cominciato tutto con il '68. A distanza di quarant'anni da quei fatti, in nessun incontro su quegli anni si pone il problema di come si sia arrivati alla violenza. C'è curiosità, ma nessuno dice che la nostra scelta fu una reazione maturata lì. Io mi iscrissi al Msi "per affermazione": volevo dire che sono fascista ma sono anche altre cose. La nostra era una prova di forza di un mondo di vinti che aveva diritto a esserci». Perché la scelta di saltare il fosso con la lotta armata? «Me lo ha chiesto anche mia figlia Chiara. Non sono riuscito a spiegarlo. È come il carcere: non è comunicabile. Un po' come la maternità per una donna: possiamo starle vicino e magari assistere al parto, ma il resto che ne possiamo sapere... A mia figlia alla fine ho detto: di quel periodo e delle mie scelte, chiedi alla mamma. Nei primi tempi che sono uscito dal carcere, avevo ansia di parlare. Poi anche questa voglia di comunicare un'esperienza si è spenta per l'incapacità di dire quelle cose. Molti mi guardavano strano, come se fossi tornato da una guerra che avevano soltanto sentito raccontare. Una volta, a Roma, andai a firmare un permesso in un commissariato di polizia. Un funzionario chiamò i suoi colleghi più giovani e disse: "Vedete, io e Tuti si sa cosa sono stati quegli anni. Noi siamo noi, voi no"». Poi arrivano le stragi senza colpevoli. «È Piazza Fontana a far scoppiare la tensione nel Paese. Da parte mia c'è una sorta di presa d'armi: se c'è una guerra, ci sto. Non è facile, ma non mi tiro indietro. Qualcuno l'ha dichiarata questa maledetta guerra e io non farò il disertore. La lotta armata nasce proprio da questa consapevolezza: ci avete demonizzato? Bene, allora butto l'anima al diavolo ma mi avrete contro. Chi non ha fatto quella lotta, paradossalmente è oggi più incarognito, mentre chi l'ha combattuta cerca la pace». Per Tuti anche il carcere è stato «nero». «Li ho passati tutti i bracci e braccetti. Inizialmente eravamo pochissimi detenuti politici. I compagni si sentivano in un ambiente estraneo. Noi, invece, eravamo abituati a essere emarginati. Quando però i rossi hanno incominciato ad essere più numerosi, sono seguiti periodi di scontri anche dietro le sbarre. Poi, verso la metà degli anni '80 abbiamo ricominciato a parlarci, raccontandoci i rispettivi immaginari. Quando portammo in scena uno spettacolo di burattini, un maestro di scuola mi disse che era parente di un ideologo delle Brigate Rosse. Gli risposi: quando lo vedi, digli di venire in carcere a portarmi vino e dolci perché sono qui per colpa sua. Perché faceva una rivista su cui scriveva che i fascisti erano cattivi. Ho preso le armi per questo e ora lui doveva farsi carico di me. Non venne con le arance, ma mi fece sapere che se avessi avuto bisogno mi avrebbe dato una mano. In Italia dopo decenni non si sa chi ha davvero fatto le stragi. C'è un buco nero. Ma non è un nero fascista». Il 4 agosto 1976 la strage del treno Italicus fa dodici morti e 48 feriti. Lei alla fine è assolto in Cassazione, nel 1992 «Sulle stragi abbiamo fatto indagini anche noi neri, in carcere. A Novara, agli inizi del 1981, c'erano vari nostri gruppi, di cui facevano parte Pedretti e altri. Cercammo d chiarirci le cose: il patto era che dovevamo dirci tutto quello che sapevamo, senza reticenze. In quel periodo, dentro e fuori dal gabbio eravamo davvero feroci. Ma non emerse nulla. Per l'Italicus, venne chiamato a testimoniare Scolari, un professore universitario. La notte prima del processo si è impiccato lasciando una lettera molto strana in cui diceva: "Io ho sempre servito il partito". Dopo quel fatto, non ha più parlato nessuno. E non si commemora mai la strage dell'Italicus: cose strane. In primo grado vengo assolto su richiesta dello stesso pm; poi tra il primo e secondo grado di giudizio escono i pentiti neri come Vinciguerra e Izzo, che pure ci scagionano. A quel punto inspiegabilmente veniamo condannati. Mi assolveranno nel '92. Sono rimasto sereno: ci vorranno cinquant'anni, ma prima o poi qualcuno prenderà in mano quelle settantamila pagine del processo e vedrà come stanno le cose. Di fatto, le piste alternative alla strage fascista non sono state battute. Più comoda la vulgata dei neri bombaroli. Eppure l'unica strage che ha un'impronta dei Servizi o dei compagni è proprio quella delll'Italicus». E sulla strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, il suo giudizio è diverso? «Non conoscevo Mambro e Fioravanti, ma non si può credere che gente come i Nar possano aver fatto quel massacro. Nel tempo sono spuntate altre piste, come quella di Carlos. Ma non sono un giudice, non è compito mio accertare come stanno le cose e in fondo non me ne frega più di tanto. Il nostro errore è che per pur essendo mossi da un'ansia di giustizia, abbiamo fatto del male. Perciò se ora mi riesce, voglio cambiare il destino di qualche ragazzo della comunità o aiutare alcune detenute per le quali sto lavorando a un progetto di cooperativa sociale. Sulle altre cose non ci perdo tempo». Chiede il perdono dei familiari delle sue vittime? «Ho grande sofferenza per il dolore che ho causato a quelle famiglie. È il caso di Anna Falco, la figlia di Leonardo Falco. Lo Stato non l'ha sostenuta, ma questo non è colpa mia. Quanto al perdono, è una cosa che si dà. Chiederlo è strumentale, però sarei sollevato se lei volesse perdonarmi. A me dispiace solo del male che ho fatto. Per quanto riguarda quello subito, me lo sono cercato. Come vive oggi il Nero non pentito? Bado al presente, con estremo distacco verso il passato. Sono storie di un altro me stesso. Non sono credente, ma nel Vangelo c'è scritto: 'Bisogna che i morti seppelliscano i morti'. Sono architetto, potrei guadagnare 5.000 euro al mese con il mio lavoro eppure preferisco averne 250 di rimborso spese e lavorare alla comunità 'Mondo Nuovo'. Il carcere non mi fa paura, forse ho più paura a stare qui. Lì sono rispettato e temuto. Venissi arrestato ora e portato in qualsiasi carcere, avrei gli altri detenuti a mia disposizione. Stare con questi giovani è invece la vera scommessa che ti rimette in gioco. Qualcuno mi ha anche detto che dovrei scrivere un libro, ma anche questo non mi interessa. Avevo pensato al titolo, però: "Pena sofferta". Sottotitolo: "Poca". Perché in carcere ho sempre cercato di divertirmi. Questa cosa un giorno la dissi anche a PierLuigi Vigna. Oggi la mia vita è stare accanto a questi giovani che vogliono farla finita con la droga. Non li salvo io, ma ci provo. Che progetti ha per il futuro l'ex primula nera? Rimango sentimentalmente legato al fascismo. Ho da poco conseguito un master sull'agricoltura sociale, ma ho studiato anche a Tubinga, con Ratzinger non ci siamo incrociati per poco… Insieme a Luciano Violante, con cui abbiamo portato in scena Qoèlet, proviamo ad aiutare le donne del carcere di Livorno. Di Violante ho anche il numero. Lo chiamo una volta l'anno; quando non può rispondermi, mi richiama sempre. L'ultima volta gli ho detto: 'Sono Mario Tuti'. 'Lo so', mi ha risposto. Aveva il mio numero registrato sulla rubrica. E pensare che basta un assessorato in uno sperduto comune per trasformare un politicuccio in un satrapo orientale. Per le ragazze detenute, mi hanno promesso un casale. E ho in mente altri progetti di solidarietà. Mario Tuti come si vede tra dieci anni? Invecchiato. Mio figlio Werter, che vive vicino Pistoia, forse ci darà un nipotino. Con lui non sono mai riuscito a parlare ma confido nel tempo. Mia moglie è più preparata di me all'eventualità di diventare nonna. Per me è diverso: siccome ho due volte trent'anni (sono entrato in carcere che ne avevo 28 e ne sono uscito solo quattro anni fa), oggi mentalmente penso di averne 32. Mi aiuta il fatto che non mi guardo tanto allo specchio.