L'ultima figuraccia. Addio al decreto varato dopo il caso Reggiani

Quel decreto che sarebbe dovuto essere il grande segnale che il governo Prodi voleva dare all'Italia nella lotta alla criminalità. Quel decreto nato dopo la morte di Giovanni Reggiani, uccisa brutalmente a Roma da un romeno di etnia rom. Quel decreto su cui il ministro dell'Interno Giuliano Amato aveva scommesso tutto. Anche il suo posto. Aveva detto che si sarebbe dimesso in caso non fosse stato convertito in legge dai due rami del Palamento. Bene, quel decreto non sarà mai legge. Il sottosegretario Gianpaolo D'Andrea spiega che «una parte consistente del contenuto del decreto sarà assorbita in un decreto legislativo. Sul resto del contenuto manca il consenso unanime dei gruppi perché si possa esaminare. Per questo il governo segnala l'esigenza di non procedere». Insomma, il documento varato in Consiglio dei miniatri resterà lettera morta. Come resteranno ipotesi campate in aria i calcoli fatti dall'esucutivo sull'efficacia del provvedimento. A dicembre si stimava, sulle allora 181 espulsioni effettuate, che in un anno lo Stato avrebbe allontanato circa 1200 persone. Ora nessuno verrà espulso. Chissà se invece Amato manterrà la promessa fatta. Quel che è sicuro è che il suo sottosegratario corre subito ai ripari promettendo di reintegrare le norme in un nuovo decreto legislativo. Ma il tema della sicurezza, con Prodi a Palazzo Chigi, narra una storia travagliata. Sì perché il dielle che si sarebbe dovuto approvare entro la fine di questo febbraio è un testo che rimedia a un errore precedente. Così questa diventa la seconda volta che il governo non insiste per la conversione in legge del suo testo. La prima volta è stato «obbligato». Infatti, durante le procedure di conversione in legge in Parlamento, una modifica al testo originale del governo, per inserire le norme anti-omofobia, aveva causato un bel «pasticcio». Un emendamento sostituiva la legge Mancino. Cancellava la legge contro l'odio e la persecuzione razziale. Si è dovuto rimediare all'errore rinunciando alla conversione in legge. Eppure Walter Veltroni aveva fatto fuoco e fiamme per portare avanti il dielle. Aveva chiesto il pugno duro a Prodi. Aveva richiamato il mondo della politica «all'unità nazionale», aveva quasi pregato Prodi di non transingere in tema di sicurezza. Amato, invece, che aveva annunciato le sue dimissioni in caso non fosse stato approvato, fu attaccato. L'opposizione chiedeva la sua testa, le sue dimissioni. Ma il ministro dell'Interno provava comunque a difendersi: «Io dimettermi? Non ci penso proprio. Mi sarei dimesso se le norme fossero decadute del tutto. Ma in realtà il primo dl è andato in decadenza in modo gestito per presentare un nuovo provvedimento. Ho sempre pagato di persona gli errori fatti, ma in questo caso non c'entro». E Amato si salvava sul filo di lana. Il Cdm si rimetteva all'opera per reintegrare quelle norme in due nuovi decreti, che venivano approvati da Palazzo Grazioli a tre giorni dal 2008. Ieri l'ultimo capitolo. E, come detto, la decisione sul decreto legge è che verrà fatto decadere. I tempi tecnici non ci sono, il Parlamento non può attuare la conversione. Passano pochi secondi dall'annuncio del sottosegretario D'Andrea che riparte la polemica contro l'esecutico (ormai dimissionario). È la Lega ad alzare la voce. «È la seconda volta - ha detto Roberto Cota - che il governo non insiste per la conversione di un decreto sbandierato da Veltroni dopo la morte della signora Reggiani. Una conversione che non avviene perché sui contenuti del decreto la maggioranza non trova unità. Questo la dice lunga sull'affidabilità del candidato premier Walter Veltroni».